Scheda: Itinerario - Tipo: Storico

La città e le leggi razziali

Questa scheda raggruppa alcuni luoghi in città che sono collegati alla comunità ebraica in Torino nel periodo delle leggi razziali, emanate nel 1938. E' un contributo di MuseoTorino al progetto "1938-2018. A 80 anni dalle Leggi razziali". I contenuti si devono a ricerche e studi dell'ISTORETO.

 


Inizio: 1938

Fine: 1945

01. Il progetto "1938-2018. A 80 anni dalle Leggi razziali"

In occasione dell’ottantesimo anniversario delle leggi contro gli ebrei emanate nel 1938 dal regime fascista, è importante riflettere su quella pagina cruciale della nostra storia nazionale, poco nota ma di grande attualità. Da un lato, per affrontarla apertamente e farne occasione di più ampia consapevolezza e, dall'altro, per trattare il tema quanto mai attuale del razzismo e della xenofobia, mettendo in luce i meccanismi - sociali, culturali, politici - che vi stanno alla base.

Il progetto 1938-2018. A 80 anni dalle Leggi razziali si sviluppa lungo tutto il 2018 e prevede seminari, incontri pubblici, proiezioni e iniziative diverse; a novembre, in particolare, si inaugura una mostra presso il Palazzo del Rettorato e un’installazione multimediale al Polo del 900. Coordina il progetto ​il Museo diffuso della Resistenza insieme con Istoreto, Unione Culturale Franco Antonicelli, Centro Internazionale di Studi Primo Levi e Università degli Studi di Torino, con la collaborazione di molti degli istituti del Polo del '900 e della Comunità Ebraica di Torino (*).

 

02. La città delle leggi razziali

Secondo i dati forniti dall'Annuario Statistico del Comune di Torino (1938), nelle sezioni IX (Vanchiglia) e X (Valentino) risiedevano rispettivamente 253 e 276 ebrei, poco meno della metà di una popolazione complessivamente censita in quell'anno per un insieme di 1414 individui.
La città delle leggi razziali è una città frazionata in diverse realtà: la città del benessere, di chi ormai abita sui lunghi viali e alla Crocetta e la città dei piccoli commercianti, degli artigiani che dal vecchio epicentro di piazza Carlina non si erano mai allontanati, per carenza di mezzi economici ma anche per fedeltà a se stessi e alla propria storia.
Fatalmente, dopo l'autunno del 1938, spinti dall'incalzare degli eventi le due città si protendono verso la zona adiacente alla Sinagoga, dove gli incontri per creare ex novo la scuola e discutere la serie incalzante di provvedimenti che riguardano i cittadini "di razza ebraica", s'intensificano.
Novant'anni esatti dai decreti di emancipazione e dallo Statuto avevano distribuito gli ebrei torinesi in tutta la città, tuttavia le vie limitrofe a Piazza Carlina costituivano ancora per le famiglie meno abbienti il guscio da cui era doloroso allontanarsi. Qui sorgeva il vecchio ghetto, qui erano (e sono) visibili i cancelli in ferro battuto che lo delimitavano, qui perdurava il ricordo del cibo saporito e fedele alle norme rituali servito fino alla fine del secolo scorso dalla trattoria "Ghetto Vecchio", gestita da un personaggio leggendario come Aron Bachi.
Dopo il 1938, il nuovo centro diventa il reticolo delle vie limitrofe alla via San Pio V: via Galliari, via Sant'Anselmo, via Goito, via Berthollet, via Bidone (con due non trascurabili appendici, agli estremi topografici e anagrafici: via Orto Botanico 13 sede dell'orfanotrofio e piazza Santa Giulia 12 sede dell'ospizio per gli anziani). 
Il quinquennio che separa l'inizio della legislazione razziale e l'avvio delle retate e degli arresti va studiato nelle diverse tappe, ma è visibilmente segnato da un "prima" e da un "dopo": il bombardamento del 21 novembre 1942, che rase praticamente al suolo la Sinagoga. Segnali allarmanti della tragedia incombente si erano avuti anche prima, con l'arrivo di profughi ebrei dalla Germania, ospitati negli stessi edifici di via Sant'Anselmo e con le sinistre avvisaglie di una campagna antisemita che, in città, aveva assunto toni preoccupanti soprattutto a partire dall'autunno 1941 (attentato al portone della Sinagoga, affissione di lugubri manifesti inneggianti all'odio antiebraico). Erano avvertimenti, prove generali del tentativo operato dal nazifascismo di fare di Torino una "città senza ebrei". 
Nulla tuttavia segnò la biografia di giovani e meno giovani come il vedere crollare in frantumi l'architettura vagamente esotizzante della grande Sinagoga, con le sue quattro cupole a tegole d'ardesia, squame di pesce e antenne d'oro. Le bombe che distrussero la Sinagoga sono il segnale che chiude sempre più ermeticamente ogni rapporto con il mondo esterno (**).

 

03. I luoghi

Piazza Carlina (n.1) è storicamente il fulcro del ghetto ebraico (n.2), qui intorno vivevano le famiglie meno benestanti: piccoli commercianti, artigiani, venditori ambulanti. Nel momento in cui l'ondata persecutoria stava per avviarsi, la piazza ospitava ancora il mercato e attorno ad essa avevano ancora la residenza alcuni  nuclei famigliari appartenenti ad un ceto sociale più basso dei correligionari trasferitisi in altri quartieri. Il luogo, apparentemente, era sicuro. Lo diventerà un po' meno quando la caserma Bergia, situata lungo uno dei lati della piazza diventerà il comando della Guardia Repubblicana. In mezzo al mercato, sul finire del 1943, e per larga parte dell'anno successivo, si trovava una bancarella che teneva esposti libri, spartiti musicali, libretti d'opera già appartenuti alla titolare dell'antica Cartoleria Centrale di via Po, 18, il locale oggi è molto cambiato ma ancora riconoscibile, nel dicembre del 1943, la vetrina del negozio era andata in frantumi per una sassata o una bomba esplosa nelle vicinanze (n.3). La titolare era sfollata nel 1944 dalle parti di Pinerolo e, prima di partire, aveva affidato le sue cose ad un vecchio suo conoscente.

Da piazza Carlina le famiglie ebree si erano allontanate con il trascorrere dei decenni ma lungo la contigua via Po e per tutta la lunghezza delle strade (via San Francesco da Paola, via dell'Accademia, via San Massimo, via Fratelli Calandra) che vanno in direzione di Porta Nuova o sconfinano nel quartiere dove, nel 1884, era sorta la Sinagoga (n.4), risiedevano o lavoravano ancora commercianti e piccoli artigiani ebrei mai allontanatisi dalla zona del ghetto. In un piccolo gabbiotto addossato a una colonna del porticato di via Po, per esempio riparava orologi il padre di Walter Rossi, che sarà uno dei giovani ebrei caduti nella lotta di liberazione. Nella non lontana via Mazzini, e soprattutto in via San Francesco da Paola, alla vigilia delle leggi razziali, abitavano le due famiglie che rifornivano la comunità di carne macellata secondo il procedimento della schechità. In via Mazzini abitava la famiglia Grossman, mentre in una casa del vecchio ghetto, in via San Francesco da Paola (angolo via Maria Vittoria), si trovava il negozio di Claudio Pescarolo (detto Parin), dove venivano messi in vendita gustosissimi salami d'oca, oltre a oggetti religiosi e libri di preghiera. Claudio Pescarolo fu arrestato il 24 giugno 1944 e deportato ad Auschwitz, da dove non fece ritorno. Dopo la Liberazione il negozio si trasformò in macelleria De Andrea-Gambotto e diventerà la ditta fornitrice della comunità.

L’Ospizio israelitico (n.5) era sorto nel 1863 come Ente Morale e si trovava in una palazzina ottocentesca, in piazza Santa Giulia 12, a ridosso di corso San Maurizio. Nel 1938 ospitava circa una sessantina di anziani, in maggioranza originari di Casale Monferrato, quasi tutti indigenti. Nella stessa sede riaprirà i battenti, nel secondo dopoguerra, finché non verrà eretta la Casa di Riposo di via Bernardino Galliari. Al suo posto, in via Santa Giulia, oggi sorge un moderno palazzo ma negli anni Cinquanta e primi Sessanta fu ancora una delle sedi più animate e vivaci della vita comunitaria. Il medico responsabile, negli anni Trenta, era il dottor Adolfo Fubini, nell’ospizio si trovava una piccola Sinagoga, l’ospizio rimase aperto finché fu possibile garantire un minimo di assistenza. Sul finire del 1943 partirono dall’ospizio, clandestinamente, alcuni cortei funebri in direzione del cimitero ebraico di corso Regio Parco, guidati dal vice rabbino Giacomo De Benedetti che, per un certo periodo, riuscì a garantire una sepoltura religiosa, anche sotto l’occupazione tedesca. Le notizie e testimonianze scarseggiano ma pare che, quando la situazione divenne insostenibile, nell’autunno-inverno 1943-1944, gli ospiti di piazza Santa Giulia che non riuscirono a nascondersi altrove, siano stati trasferiti, in minima parte, nei locali dell’Opera Pia Lotteri, in via Villa della Regina, 21 (n.6) e soprattutto nei ricoveri municipali di via Como, 140 e via Moncrivello, 5 (n.7).

La precettazione per il lavoro manuale coatto fu disposta dal Ministero dell’Interno il 6 maggio 1942. Circa sessanta ebrei maschi in età adulta, gli studenti erano esclusi dal decreto, lavorarono in corso Italo Balbo 92 (attuale corso Casale) dove vi era un magazzino, contenente per lo più legname per le traversine, di proprietà della Società Anonima Tranvie Torinesi Intercomunale (SATTI). Altrettanti vennero obbligati a partecipare ai lavori stradali nella zona di Piazza Sofia e ancora una sessantina di ebrei lavorarono, nell’ottobre del 1942, in un terreno appartenente al demanio dello Stato ubicato in via Guicciardini 1, non lontano da Porta Susa, dove c’è il grattacielo RAI, sede ora dismessa.

Primo ricovero per molte famiglie braccate dai nazifascisti e luogo di smistamento verso la clandestinità fu l’Arcivescovado (n.8). Dai primi mesi del 1944 fino alla Liberazione qui furono coordinate le attività di assistenza grazie all’attività congiunta dell’organizzazione ebraica della DELASEM (Delegazione Assistenza Emigranti) e di due Arcivescovadi: quello di Genova nelle persone del cardinale Pietro Boetto e di monsignor Francesco Repetto e quello di Torino, nelle persone del cardinale Maurilio Fossati e di monsignor Vincenzo Barale

Un’ isola di temporanea serenità nel cuore della città fu la Palestra dell’YWCA in via Magenta 6. In questo edificio aveva sede l’associazione filantropica statunitense YWCA (Young Women Christian Association) giunta in Italia nel 1917 e alla quale aveva aderito l’Unione Cristiana delle Giovani (UDG). L’Associazione usufruiva di finanziamenti americani, disponeva di una sala lettura, di una palestra di scherma, di spazi per conferenze e di una piscina che fu, negli ultimi anni Trena, un luogo di ritrovo, una specie di zona franca ebraico valdese. Allievi e docenti della scuola ebraica si ritrovavano nella palestra e nelle sale di via San Secondo, frequentate anche da Arnaldo Momigliano e Leone Ginzburg. L’YWCA dovette chiudere le sue attività ufficiali, per carenza di mezzi, il 6 maggio 1937, quindi prima dell’emanazione delle leggi razziali, ma il luogo fu ancora sede di incontri per parecchio tempo.

Quando si parla di leggi razziali in Italia spesso ci si sofferma sul mondo delle libere professioni, della scuola, delle università. Vi furono in realtà anche altre espulsioni. Fu, per esempio, allontanato ed espulso dal suo lavoro, l’allenatore di una delle due squadre di calcio cittadine: l’ebreo magiaro Egri Erbstein, radiato e costretto all’esilio sul finire del 1942 mentre stava costruendo il Grande Torino. Fuggì insieme alla moglie e alle piccole figlie. I dirigenti della società gli prestarono del denaro e gli promisero che, a tempesta finita, sarebbe stato confermato come allenatore e così avvenne. Il luogo simbolo per Egri Erbstein, sopravvissuto alla guerra, scampato alla deportazione, ma non alla tragedia di Superga, è lo Stadio Filadelfia (n. 9).

In via Orto Botanico, oggi via Cesare Lombroso, si trovava L’Orfanatrofio Israelitico per Fanciulli Poveri (n. 10), istituito nel 1890 per accogliere orfani di ambo i sessi e fanciulli poveri, per istruirli ed educarli avviandoli a un’arte o a un mestiere. Sotto il fascismo l’Orfanatrofio Enrichetta Sacerdote ospitava una quarantina di bambini. Per donazione della famiglia di uno dei rappresentanti della comunità e del fascismo torinese, Ettore Ovazza, l’orfanatrofio disponeva anche di una sede estiva in strada Santa Margherita 157 sulla collina torinese, una villa che oggi è di proprietà privata. Dopo il bombardamento della Sinagoga (21 novembre 1942) (n. 4), la maggior parte dei bambini sfollò a Casale; nella memoria collettiva dell’ebraismo torinese è vivo il ricordo dei pochi bambini rimasti in orfanatrofio e spostati, simulando una gita scolastica: furono messi in fila per due e avviati verso la collina, guidati dalla direttrice Gioconda Carmi e dalla signora Laudi, madre di un partigiano ammazzato dai tedeschi.

Prima del 1938, nello stesso isolato della Sinagoga (n.4), in via Sant’Anselmo 7, la comunità ebraica torinese disponeva della scuola elementare. Dopo i decreti del Ministro Bottai del 1938, che impedivano agli alunni di origine ebraica di frequentare scuole di ogni ordine e grado con valore legale, furono istituite le classi dell'avviamento, delle medie e superiori, principalmente per iniziativa dei fratelli Alessandro e Benvenuto Terracini. Un centinaio di allievi trovarono ospitalità, per il primo trimestre dell’anno scolastico 1938 – 1939, presso le Officine Serali di via Bidone, 33 (n. 11), poi si trasferirono nei locali di via Sant’Anselmo, nello stesso edificio che già ospitava i più piccoli. Dopo il bombardamento del 21 novembre 1942 la scuola fu interrotta solo per un breve periodo, l’edificio contiguo alla Sinagoga infatti fu parzialmente danneggiato e tempestivamente rimesso in sesto; qualche classe fu trasferita nella sede dell’Orfanatrofio (n. 10). La chiusura forzata della Scuola Ebraica avvenne nel 1943.

Nei pressi della Sinagoga vi era anche la casa del Rabbino Dario Disegni, in via san Pio V 15, che – nato a Firenze nel 1878 e morto a Torino nel 1967 – ha attraversato da protagonista oltre mezzo secolo di tormentata vita ebraica italiana: i trenta anni più terribili, la prima guerra mondiale, il razzismo antisemita e l’esclusione dalla società, la seconda guerra mondiale e il baratro della Shoah ma anche i venti anni più vivi, dopo il 1945 (***).

La deportazione razziale ha inizio quando la Repubblica di Salò fa proprie le disposizioni antisemite naziste con la circolare Buffarini Guidi del 30 novembre 1943. A partire da questa data gli ebrei vengono concentrati nelle carceri in attesa che si raggiunga un numero ritenuto sufficiente per organizzare il trasporto in Germania. Gli ebrei, e gli altri deportati, partono anche dalla Stazione di Porta Nuova (12). Da Torino  vengono deportati, in date e con mezzi diversi, 246 ebrei di cui solo 21 faranno ritorno.

A partire dal marzo 1944, nel reparto infettivi del dottor Coggiola, coraggioso medico comunista dell’Ospedale Mauriziano (n. 13), furono ricoverati e pertanto sottratti alla deportazione diversi ebrei, talvolta per intervento del magistrato Emilio Germano, futuro presidente di sezione in Cassazione; altre persone, con false certificazioni, vennero trasferite dall’infermeria delle carceri Nuove (n. 14) al Mauriziano (**).

Note

(*) http://www.1938-2018.museodiffusotorino.it

(**) tratto dal testo di Alberto Cavaglion in Torino 1938-45. Una guida per la memoria, Città di Torino - Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea "Giorgio Agosti" - Blu, Torino 2010, pp. 15-32.

(***) da http://www.hakeillah.com/1_09_39.htm

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