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Credo che non solo a ine. dopo le prime lezioni

ascoltate all'Università di Torino (come volano gli

anni, o antichi compagni Galletti. Alfero, Longhi,

Amoretti, Parodi, Vincenti, Bramitati!) sia acca­

duto di sentirmi come in un chiuso santuario dove

sacerdoti, stanchi talora e delusi, ci iniziavano ai mi­

steri del metodo e della hihliografia e ci esercitavau

alla indagine e alla critica sui cadaveri della storia.

Ma un giorno il caso mi condusse nell'aula dove

un Uomo, nel vigor degli anni, dalla testa di arcati-

eglo, parlava a un'esigua accolta di giovani: la sua

voce, con arcane inflessioni, vibrava di passione mal

contenuta e i suoi occhi azzurri, smarriti per so­

lito in magiche lontananze, quasi erranti fra il so­

gno e la realtà, si posavan a volte, velati di malin­

conia e di dolcezza, sui visi intenti alle sue parole.

Era il romantico, il tirtaico Arturo Farinelli.

Quell'incontro determinò i miei studi e la mia vita.

Non un professore, ma il Maestro. Maestro che sen­

tiva appieno la sacra missione di fattore di divinità,

di suscitatore di energie e di attività spontanea, di

svegliatore di anime; Maestro che ravvivava la no­

stra baldanza, minacciata dal fastidio e dalla noia;

che ci spronava fuori delle biblioteche, degli archivi

e delle scuole, alla vita idillica dei campi, alle alte

vette, dov è la pace di Dio; che c'invitava all*u-

iniltà. al devoto raccoglimento nel santuario dell'a-

nima per attingervi l'universale e l'infinito.

C'insegnava che la personalità è il nostro supremo

bene, è il divino, dove si concentrano i più pro­

fondi misteri della vita; ci confortava a riconoscere

c realizzare il mondo che è in noi trasfondendoci

con la carità nel Tutto vivente: educava in noi la

fede umanitaria, la coscienza dell'unità spirituale

di tutti i popoli, senza cui non vibra sincero amor

di patria: ci toglieva ai vani rumori per farci citta­

dini della città di Dio, del regno dello spirito.

Cieli, stelle, fremiti, lacrime, parole viete di ormai

disusata retorica, le riudivamo dalla sua bocca, ri­

fatte vergini come voci dell'alba.

Rravamo abituati a considerar la letteratura quasi

una galleria di nomi legati insieme da scuole, ten­

denze, influssi, rapporti di spazio e di tempo; e

dalle sue lezioni balzava un coro di grandi anime

fraterne: Dante, Goethe, Calderón, Leonardo, Mi­

chelangelo, Lenau, Leopardi. Hòlderlin, Schiller.

Keller. Petrarca. Kleist, Hebbel, Ibsen. Wagner;

non superuomini ma umanissimi tra i mortali, che

avevan dato imperitura espressione al comune tra­

vaglio. Ci afferrava uno sgomento indicibile; pre­

sentimento di sovrana luce, ansia di liberazione.

Si giungeva a Lui con pregiudizi di sistemi e tradi­

zioni e ri capitava dapprima come a quel filosofo

che, dopo aver ascoltato Ciuang-ze, disse al prin-

ripe Mau : « Le parole di Ciuang-ze mi hanno scon­

certato e sorpreso enormemente. Non so se egli non

è capare di esprimere correttamente il sno pensiero

o se la mia intelligenza non può seguirlo». Ma ri

ripetevamo tosto rol principe Mau : « Ciuang-ze ora

pianta i suoi piedi sulle Fonti Gialle e ora si leva

alle più alte cime del Cielo. Non conosce nè sud nè

nord; si lancia liberamente in ogni direzione, e si

perde in profondità insondabili. Non conosce nè

Oriente nè Occidente: parte dall'abisso più oscuro

e ritorna alla più chiara intelligibilità. Se voi nel

vostro stupore vi accostate al suo pensiero e lo ri­

cercate per trovare materia a discussione, questo è

come guardare il cielo con un tubo o voler coprire

la terra con la punta di una lesina».

Ricorderò sempre il colloquio avuto col mio Mae­

stro prima della laurea. Abitava in collina oltre Po.

Quando entrai, stava seduto allo scrittoio: si alzò

come trasognato, porgendomi la mano con benevo­

lenza. Gli esposi l'intenzione di addottorarmi nella

sessione prossima, e nello stesso tempo svolgevo dal

giornale il frutto sciagurato. «È stato in Germa­

nia?». «Maestro, non ho potuto: ci andrò dopo».

Veramente non avevo voluto; ma Egli sospettò ch'io

mi fossi piegato ad angustie domestiche ed ebbe uno

scatto di sdegno. « Perchè non si è •* ’*a a me?».

L'impeto sincero delle parole mi commosse. Tacqui.

E proseguì sfuriando: «Dia qua». Gli porsi timi­

damente lo zibaldone. « Cosa mai può aver fatto?

Due mesi di lavoro? Ma rimandi a un'altra sessione

e prima viaggi, viva! E mi chieda consigli, parli!

Perchè lavorare cosi da solitario? ».

Io stavo lì impietrito e proferii a stento con un fil

di voce: «Maestro, è impossibile: Lei ha ragione,

10 vedo, lo riconosco; ma. creda, per il mio bene,

per la mia salvezza è necessario ch'io abbandoni

I'Università. che diventi un uomo padrone di me

stesso». Mi comprese e disse con indulgenza pa­

terna : « Lei deve acquistare fortezza e fiducia, e

può far molto ». « Maestro, io non cerco altro che

libertà e pace ! ». Mi guardò con aria compassione­

vole, e mi diede commiato con accorata intimità.

Dunque nel dicembre 1912, cinque giorni prima del

Natale di Cristo, mi trovai anch'io, vestito di nero,

dinanzi agli undici valentuomini che dovevano giu­

dicarmi. Pur rassegnato com'ero a qualunque sorte,

11 cuore mi batteva più forte per la solennità del

momento. Il mio saggio era veramente infelice:

mi aspettavo dal Maestro un'aspra stroncatura; ri­

masi invece confuso dalla sua mitezza. Parlando mi

guardava con occhi sinceri ed affettuosi, senza la

minima traccia d'ironia. L'esito superò l'attesa.

Non Lo rividi più per lunghi anni, pur seguendolo

sempre in silenzio da lontano. Per mille esperienze

compresi infine che libertà e pace sono il nostro

fatale perpetuo anelito, e che somma sapienza è

ricercare lo scruubile con tutte le forse, sino al­

l'ultimo respiro, e venerare l'imperscrutabile con

umiltà e purità di cuore.

ITALO SCOVATO

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