

L’INACCESSIBILE
E, di quello che parve paradisi
intravisto, un tesoro in'è rimasto
inaccessibile ad ognuno, ed a ini*
stesso. che inabissato
nel mio vortice d'uomo.
In quest'intimo chiudo
è per nessuno che diflondon ombra
le splendide valanghe
del verde. Nè addentare
è lecito delizia di quei frutti
a sughi densi. Quivi, sotto cieli
arsi d'azzurro, a donne dalla |telle
d’albicocca non può fare carezza
niuna mano di carne.
Tesoro del tesoro, o fra le donne
tu l'una d'occhi immensi, tempestosi!
Ahi. te nemmeno sanno modulare
di tenerezze
queste mie mani ch'io mi tocco, inutili.
Che solo esisti, adesso, dentro il buio
d'un me impenetrabile.
Tale, in quei mari stessi, la galèa
spagnola che, piuttosto ch'ai corsari
arrendersi, affondò
e pei mostri stupiti degli abissi
fu strano frutto
a gran foglie di vele, a duro nòcciolo
d'oro. Intatto, quell'oro
irraggia una sua nera ansia di luce,
ma non la sa raccogliere che una notte
liquida, inaccessibile.
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Sonno, vieni! solo generoso,
che liberi quell'oro,
si che sfavilli nella luce astrale
del sogno; e stacchi quei frutti dai sughi
più densi ancora in sogno;
e quella carne d'albicocca, d'una
fra tutte, scarceri
si che possano le mie mani, fatte
sogno, plasmarla di carezza, allora
si, dolcissima, lunga.
LIONELLO FIUMI
M U S I C A
I.
Chiusa musica e lenta
che in me ti culli,
e rodi, onda marina,
la sorda carne
da cui zampilli,
t'odo lontana: e penso
che tu non sia la voce
segreta del mio viver d'ora
ma l'eco di clangori immensi
da me vibrati in mondi
sepolti.
L'eternità ci beve,
gocciole: e nel respiro
dell'universo i pianti
umani
suonano meno forte
del fruscio di una foglia.
Tu. nel silenzio, musica
vegetazione d'aria,
fiorisci, presso il limite
in cui le cose e gli esseri
cadono in nulla.
II.
Pochi dolci rintocchi
dal trepidante argento
lunare estratti
scuoton la notte, annuncio
d’un varco d'ore: l'alba
ai monti s'incammina.
Si china la mia mente
all'onda dei ricordi incerti
che repentina sgorga,
chiede sillabe, nuova
vita precisa.
Credo che un giorno io vissi
nel mare e nei vulcani;
turbine mi levai sn isole
scomparse nelle frane
del tempo; al tumulto
partecipai che il sole
di prim'estate suscita
quando conduce al piano
il fresco dei nevai.
Adesso, nel concluso
mondo in cui vivo, s’affioca,
esiguo rivo all'arsura
canicolare, la voce
debole che ai ricordi invento.
E in questa taciturna notte
mentre m'ascolto, lo squillo
roco d’un gallo mi vince:
cedo al giorno che sorge,
in umiliata forma
d'uomo ritorno.
III.
Troppo interrotti accenti,
musica, tu mi doni,
raggio che fruga i rami
del bosco: e insinua
nell'ombra delle verdi arcate
bagliori infranti.
Ritornerà il mio corpo
rigido legno e melma
e tacerà quest'eco
marina, d'infinita
risacca che nel sangue
corre.
Se la memoria serba,
conchiglia, un rombo tenue
d'oceani nel suo fondo,
dalla mia carne «ciolta
in polvere di suoni
si leverà, nel giorno
segnato,
l’accordo che adesso mi cerca
a fior delle marèe
e colmerà, sai vènti,
le volte del fatale
silenzio.
ADRIANO GRANDE