La città antica

Marco Saroldi - Porta Palatina

Dopo l’insediamento dei Taurini alla confluenza fra il Po e la Dora, la “pacificazione delle Alpi” a opera dei Romani porta alla fondazione di Augusta Taurinorum: il dominio dell’Urbe si riflette nell’urbanistica e nell’architettura, dalla Porta Palatina alle tre basiliche paleocristiane.

Introduzione

Per quanto il Piemonte attesti una presenza antropica risalente al Paleolitico, non siamo a oggi in grado di offrire un’interpretazione complessiva degli stanziamenti umani nell’area torinese prima della romanizzazione. Le fonti letterarie antiche tramandano l’esistenza di un centro abitato di nome Taurasia, probabile capoluogo dei Taurini, un nome di popolo che probabilmente stava a indicare non un’etnia unica bensì un insieme di tribù accomunate sia dallo stanziamento nei territori prossimi all’arco alpino sia dall’interesse nel controllo delle vie che portavano ai più agevoli valichi delle Alpi Cozie e Pennine.

È forse proprio in funzione di tale collocazione e interesse – e forse anche a seguito di contrasti con altre tribù liguri e celto-liguri alleate dei Cartaginesi nella seconda guerra punica – che i Taurini si opposero alla calata di Annibale in Italia (218 a.C.), il quale però li sconfisse con relativa facilità e, secondo il racconto di Polibio, ne distrusse l’insediamento dopo soltanto tre giorni di assedio. Questo episodio, in seguito assai mitizzato al di là delle modeste evidenze e ripercussioni storiche, è il motivo per cui l’esistenza di una “città dei Taurini” trova la sua menzione nelle fonti romane.

di Luisella Pejrani Baricco e Sergio Roda

Il primo insediamento, un punto ignoto alla “confluenza”

Finora l’archeologia non è tuttavia riuscita a localizzare con certezza l’ubicazione di questo primo insediamento, né a stabilirne il rapporto strutturale con la futura città romana: mentre infatti è documentata l’esistenza di nuclei abitativi pre-romani sulla fascia collinare oltre il Po, si può soltanto supporre la presenza di insediamenti in pianura presso gli approdi fluviali. Poiché Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale (III, 118) ricorda che da questo punto partiva in età imperiale la navigazione in direzione dell’Adriatico, segno di un’intensa attività mercantile attraverso tutta la pianura Padana, costellata di porti fluviali ed empori commerciali, è lecito supporre che un’attività analoga, sia pure assai più limitata, si svolgesse anche prima della colonizzazione romana. Anche in ragione di ciò molti studiosi tendono a risolvere il problema dell’incerta collocazione della capitale dei Taurini supponendo che essa sorgesse in prossimità della confluenza del fiume Dora nel fiume Po, sito particolarmente favorevole dal punto di vista commerciale e strategico.

Per quanto indicano le ricerche archeologiche fino a ora condotte, non vi è nessuna continuità insediativa tra il centro taurino e quello romano e si è ipotizzato, anzi, che, dopo la distruzione annibalica, gli indigeni superstiti non abbiano ricostruito la città né nel medesimo luogo né con le stesse modalità, ma abbiano preferito strutturarsi in un insediamento sparso costituito da più villaggi; anche in questo caso però restiamo nell’ambito delle congetture plausibili ma non comprovabili.

Pure sull’origine dell’etnonimo Taurini, o Taurisci, risulta esistere, già nelle fonti antiche (Catone, Polibio, Strabone, Plinio) un certo grado di confusione; l’unico elemento che sembra accomunare tutte le testimonianze è la loro collocazione geografica in ambito alpino; è quindi plausibile che il termine stesse a indicare non tanto un gruppo etnico definito, quanto appunto un insieme di tribù accomunate dallo stanziamento nei territori posti in prossimità dell’arco alpino.

La fondazione di Augusta Taurinorum e i primi secoli dell’impero

L’attenzione di Roma per il quadrante nord-occidentale dell’Italia settentrionale, a nord del Po, fu tardiva. Nel 100 a.C. venne fondata la colonia di Eporedia (Ivrea), base militare delle campagne contro i Salassi, stanziati tra alto Canavese e Valle d’Aosta, nel cui territorio si trovavano le importanti e redditizie miniere d’oro della Bessa controllate proprio dai Salassi. In seguito – prima con Cesare nella prospettiva della conquista gallica e poi con Augusto nel suo disegno di espansione verso il centro-nord Europa, e in particolare verso la Germania – il sito alla confluenza di Po e Dora divenne strategicamente importante come retrofronte attrezzato per gli eserciti che si dirigevano a ovest verso il passo del Monginevro, e a nord verso i colli del Piccolo e del Gran San Bernardo.

La fondazione della colonia di Augusta Taurinorum si data oggi tra il 25 e il 15 a.C., periodo durante il quale Augusto si dedicò alla “pacificazione” delle Alpi. Con il drastico ridimensionamento del suo progetto di portare i confini centroeuropei dell’impero fino al corso del fiume Elba, in seguito alla disfatta romana nella selva di Teutoburgo (9 d.C.), anche l’importanza di Augusta Taurinorum nell’ottica della politica imperiale diminuì notevolmente. La città non è più menzionata nelle fonti letterarie, fatta eccezione di alcuni sporadici casi legati a episodi che videro il movimento di truppe transfrontaliere, come ad esempio la menzione in Tacito del burrascoso passaggio delle coorti di Vitellio durante la guerra civile del 69 d.C., successiva alla morte di Nerone. L’archeologia e le iscrizioni ci permettono di confermare l’esistenza di un centro urbano con una discreta vitalità in ambito locale: nel I e II secolo d.C. sono attestati, a livello epigrafico, artigiani dediti alla lavorazione di vetri e metalli e alla produzione di laterizi e vino, nonché numerosi soldati, sparsi in tutto l’impero, originari di Augusta Taurinorum. Nel contempo, non pochi abitanti della colonia testimoniano una condizione di progressivo miglioramento del proprio status sociale e si ha notizia di personaggi che ebbero una carriera politica non soltanto in ambito locale, ma anche – seppur in casi molto rari – a livello imperiale.

All’aristocrazia taurinense appartennero due famiglie, almeno un paio di membri delle quali, Caio Rutilio Gallico e Quinto Glizio Atilio Agricola, risultano avere raggiunto i vertici della carriera senatoria e avere rivestito cariche politiche e militari di alto livello fra l’età claudia (Gallicus inizia la carriera nel 43-44 e Glizio Barbaro dedica un monumento a Claudio nel 48) e l’età traianea (Agricola, riveste il consolato per la seconda volta nel 103). Sappiamo per certo, inoltre, che quantitativamente la popolazione cittadina non dovette mai superare le poche migliaia di unità.

Per quanto si riferisce all’impianto urbanistico, la fortunata sopravvivenza di molti tratti della cerchia delle mura della città romana consentono di definire le dimensioni di Augusta Taurinorum, che occupava uno spazio rettangolare di circa 700 x 750 m (2400 x 2555 piedi romani, per un’area corrispondente a circa 50 ettari, equivalenti a una centuria romana) con l’angolo nord-est tagliato in diagonale:

questo tratto obliquo delle mura, situato in corrispondenza degli odierni Giardini Reali, può essere stato imposto dalla prossimità allo sbalzo di quota del terrazzo fluviale. Delle quattro porte principali poste a capo del cardine massimo, ricalcato dalle vie San Tommaso e Porta Palatina, e del decumano massimo, l’attuale via Garibaldi, si conservano la Porta Palatina e quella inglobata in Palazzo Madama. La trama delle strade era regolare e riflessa nella cadenza delle torri di cortina, ma i moduli degli isolati risultano leggermente variabili. Caratteristica è l’ortogonalità del reticolo viario dell’attuale “Torino quadrata”, che ancora riflette l’assetto romano, ma va considerato che in buona parte è frutto dei “dirizzamenti” della seconda metà del Settecento, che riallinearono le facciate sulle principali arterie stradali modificate in epoca medievale, e dei “risanamenti” ottocenteschi del superstite tessuto medievale, che invece aveva alterato nei secoli il disegno urbano originale.

Fino a ora le ricerche archeologiche non hanno restituito contesti significativi per il periodo iniziale della colonia e quasi nulla sappiamo dell’impianto urbano al momento della sua fondazione. Risalgono certamente all’epoca augustea le prime semplici strutture del teatro e nei decenni seguenti si collocano sia i primi interventi di costruzione della cinta muraria, uno dei maggiori segni lasciati dall’impianto romano alla città moderna, sia la ristrutturazione del teatro, trasformato in un edificio più complesso e dotato di un portico dietro la scena (porticus post scaenam). Non sappiamo dove si trovasse il foro, centro nevralgico della vita pubblica di ogni città romana, forse posto in corrispondenza dell’attuale piazza Palazzo di Città.

In questa prima fase le abitazioni, di cui conosciamo solo pochi e frammentari elementi, erano edifici molto semplici e di scarsa qualità e le infrastrutture urbane erano praticamente assenti.

Negli ultimi decenni del I secolo d.C. (età flavia) viene ultimata la cortina muraria e a ridosso del lato orientale si formano presto zone di discarica, sia all’interno delle mura, sia all’esterno, dove si raccolgono anche i rifiuti delle attività artigianali urbane, forse impiantate nelle vicinanze. Contemporaneamente viene avviata una importante ristrutturazione urbana che vede la realizzazione di un’articolata rete fognaria e, probabilmente, dell’acquedotto; le strade vengono pavimentate con grossi pietre e una via pubblica larga tra i 55 e i 60 piedi romani corre all’interno lungo tutto il circuito murario. Fuori dalle mura, a sud ovest, doveva probabilmente sorgere un anfiteatro di cui però non si conservano le tracce archeologiche, mentre sulle rive del Po, in corrispondenza dell’odierna piazza Vittorio, un grande magazzino (horreum) accoglieva le merci che giungevano per via fluviale. Le abitazioni private, soprattutto con gli inizi del II secolo, furono ristrutturate e ampliate, dotate in molti casi di impianti di riscaldamento e decorate, negli ambienti di rappresentanza, con affreschi e mosaici mentre i vani di servizio erano pavimentati in cementizio e gli esterni spesso lastricati con laterizi posati a secco.

Torino tardoantica e cristiana fino al VI sec. d.C.

Torino torna a essere menzionata nelle fonti letterarie, segno di un’accresciuta importanza strategica, solo in età tardo-antica, in seguito alla crisi del III secolo e alla ristrutturazione imperiale del IV. In una posizione di controllo sulla via delle Gallie e in direzione del limes renano – funzione che, invero, non aveva mai perso, ma che assume un nuovo significato, specie a partire dalla fase centrale del III secolo in coincidenza con la breve vita dell’Impero secessionista delle Gallie (259-274 d.C.) – Torino vide numerosi e frequenti passaggi di truppe imperiali, dirette ora contro usurpatori militari ora a impedire le scorrerie di gruppi barbarici al di qua del confine settentrionale. Proprio questo suo ruolo di “cerniera” tra Italia settentrionale e territori transalpini, nonché la vivacità della comunità cristiana raccolta attorno alla figura del vescovo Massimo ridiedero fiato a una realtà locale che pur nella sua marginalità recuperava identità e ruolo sociale e politico. La diffusione del cristianesimo nell’area dell’attuale Piemonte settentrionale avvenne a partire dagli anni quaranta del IV secolo ed ebbe come primo centro propulsore Vercelli, sotto la guida del vescovo Eusebio. Negli anni compresi tra la morte di Eusebio (371) e quella di Ambrogio di Milano (397), anche Torino si costituì in diocesi autonoma con il suo primo vescovo Massimo. Si avviò allora un profondo processo di trasformazione non solo civile e religiosa, ma anche urbanistica, a partire dalla costruzione delle chiese e della sede episcopale, che segnerà lo sviluppo della città nei secoli a venire. Pur subendo la forte influenza della diocesi ambrosiana, l’episcopato di Massimo fu segnato dalla sua forte personalità e dalla sua vigorosa e intransigente azione pastorale. Di notevole importanza fu il sinodo vescovile, voluto e predisposto da Ambrogio, che si tenne a Torino nel 398 d.C. Principale scopo del sinodo fu quello di ricomporre i numerosi conflitti sorti fra i vescovi e le diocesi delle Gallie. I deliberati di quel consesso, di là dalle questioni specifiche trattate e solo in parte risolte, confermano peraltro la testimonianza di Massimo sulla dimensione non consolidata, disomogenea e difficilmente governabile del cristianesimo torinese tra fine IV e inizio V secolo, ulteriormente complicata dall’instabilità politica e dalla conflittualità sociale.

Dal punto di vista dell’evoluzione urbanistica, si è discusso a lungo sulle tre chiese che formavano nel Medioevo il gruppo episcopale della diocesi torinese, rispettivamente dedicate a Cristo Salvatore, a San Giovanni e a Maria, e su quale sia stata la prima a essere edificata.

Smentite le teorie del passato, è oggi possibile seguire la complessa storia del gruppo “cattedrale” attraverso i nuovi dati archeologici acquisiti con le indagini iniziate nel 1996 nel sottosuolo di piazza S. Giovanni, tra il duomo e il teatro romano, e proseguite a più riprese nella cripta dello stesso duomo, sotto l’ingresso secondario meridionale e sotto la scalinata davanti alla facciata. Negli scavi della primavera del 1909 erano stati portati in luce i resti della basilica del Salvatore, ma i “ruderi” erano stati reinterrati dopo la rimozione del mosaico romanico pavimentale. A un secolo di distanza si è scelto invece di riportare alla luce e conservare in vista le strutture delle basiliche paleocristiane, offrendo al pubblico la possibilità di ritrovare nelle aree archeologiche sotterranee non soltanto i resti della città antica, ma anche le testimonianze materiali delle sovrapposizioni e delle trasformazioni di epoca medievale e moderna.

L’isolato scelto dalla comunità cristiana per costruire la cattedrale è quello a sud del teatro, ormai chiuso agli spettacoli, sull’altro fronte dell’ampia strada dove si trovavano edifici pubblici di cui non è conosciuta la funzione ma che rivelano imponenti murature, ben diverse da quelle delle case private precedenti, probabilmente demolite intorno alla metà del II secolo d.C. Per costruire gli edifici di culto si utilizzarono le fondazioni più antiche, mentre laterizi, pietre e legname vennero recuperati e rimessi in opera; i grandi blocchi allineati lungo la strada a

formare un nuovo marciapiede provengono dal teatro, a riprova che ormai il vescovo poteva disporre dell’edilizia pubblica e aveva assunto la responsabilità civile, oltre che religiosa, della città, non più sorretta da un’efficiente organizzazione istituzionale e minacciata dal continuo passaggio di eserciti, regolari o meno, da scorrerie di tribù barbariche, nonché da insediamenti nelle campagne di gruppi germanico-slavi, sia giuridicamente legittimati sia invasori.

La chiesa del Salvatore è quella oggi meglio nota: a tre navate separate in origine da colonnati, era conclusa da una profonda abside semicircolare a oriente, ritrovata in parte sotto il braccio nord del transetto del duomo. Sul lato verso il teatro era affiancata da una sorta di quarta navata, mentre dall’altro lato doveva trovarsi il battistero, forse inizialmente costituito da un’aula absidata precedente la basilica di S. Giovanni. Questa chiesa, che nel corso del VI secolo prevalse sulle altre diventando sede della cattedra del vescovo e che ha trasmesso il titolo e il ruolo di cattedrale al duomo attuale, non si è purtroppo conservata perché il suo perimetro ricadeva nella navata centrale della cripta rinascimentale, sbancata fino a notevole profondità. Si sono ritrovate però le tracce di un grande cantiere, attivo tra la fine del V secolo e gli inizi del VI, legato alla sua edificazione e alla creazione della chiesa di Santa Maria, ora individuata e ricostruibile nella sua planimetria, anche se in gran parte celata nel sottosuolo del settore meridionale della piazza.

La prima cattedrale fu dunque la basilica del Salvatore, con il battistero a sud; tra la fine del V e gli inizi del VI secolo si aggiunsero le chiese di San Giovanni e Santa Maria, che vennero a formare un eccezionale complesso di tre basiliche gemelle adiacenti e allineate, che non ha confronti nell’Occidente cristiano.

Nell’area dell’attuale Cittadella sorgeva l’importante abbazia benedettina di San Solutore, fondata nel 1006 fuori dalla Porta Segusina, dove già molto prima dell’arrivo di Massimo a Torino, alla fine del IV secolo, si veneravano i corpi dei martiri locali Solutore, Avventore e Ottavio, e che intorno al 490 il vescovo Vittore aveva trasformato in chiesa. Fu una “passio” del V secolo, storicamente non attendibile, ad avanzare l’attribuzione dei martiri torinesi alla cosiddetta Legione Tebea, che secondo una leggenda totalmente priva di fondamento storico sarebbe stata sterminata, in quanto formata da militari cristiani, all’inizio del III secolo d.C. in occasione della grande persecuzione di Diocleziano e Massimiano. Questo secondo polo religioso ci è però noto soltanto dalle fonti scritte e meno ancora sappiamo delle altre chiese che via via furono erette in città in età paleocristiana.

Mentre si compiva la “cristianizzazione” dello spazio urbano, con l’abbandono e la sostituzione delle infrastrutture dell’edilizia pubblica di età romana, anche quella privata subì pesanti modificazioni: la qualità dell’architettura e dello stile di vita degli abitanti venne indubbiamente a decadere, a dimostrazione fra l’altro del fatto che la ripresa economica di Torino all’epoca del vescovo Massimo fu in realtà quanto mai breve ed effimera. Dal IV-V secolo le antiche domus aristocratiche caddero in rovina, riparate e ristrutturate con materiali poveri, come il legno e l’argilla, con pavimenti ridotti a terra battuta e semplici focolari al posto dei sofisticati sistemi di riscaldamento presenti in tutte le unità abitative di età imperiale; le nuove forme abitative rientrano nei parametri comuni dell’epoca, ma la destrutturazione urbanistica e architettonica è anche la riprova materiale del progressivo esaurirsi della classe dirigente cittadina di estrazione e formazione romana. La manutenzione delle strade proseguì fino alla metà del VI secolo, poi gli avvenimenti della guerra fra Goti e Bizantini e la conquista longobarda, che raggiunse Torino intorno al 570, determinarono il definitivo collasso dell’organizzazione civica suggellando la fine della lunga vicenda di Torino romana.

Per saperne di più

  • G. Sergi (a cura di), Storia di Torino, I, Dalla preistoria al comune medievale, Einaudi, Torino 1997

  • L. Mercando (a cura di), Archeologia a Torino. Dall’età preromana all’Alto Medioevo, Allemandi, Torino 2003

  • G. Cantino Wataghin, L’archeologia della città, in V. Castronovo (a cura di), Storia illustrata di Torino, I, Sellino, Milano 1992, pp. 61-80.

  • L. Cracco Ruggini, Torino romana e cristiana, in V. Castronovo (a cura di), Storia illustrata di Torino, I, Sellino, Milano 1992, pp. 21-40.

  • C. Franzoni, Le mura di Torino: riuso e “potenza delle tradizioni”, in E. Castelnuovo (a cura di), Torino, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2011.

  • A. Gabucci, L. Pejrani Baricco, Elementi di edilizia e urbanistica di Augusta Taurinorum. Trasformazioni della forma urbana e topografia archeologica, in «Intra illa moenia domus ac Penates», Atti del convegno (Padova 2008), Quasar, Roma 2009, pp. 225-241.

  • S. Roda, Torino colonia romana, in V. Castronovo (a cura di), Storia illustrata di Torino, I, Sellino, Milano 1992, pp. 1-21