La città medievale

Torino, fulcro di uno dei ducati longobardi, si attesta come nodo di transito e luogo di sosta obbligata tra la l’Italia e l’Europa occidentale. L’influenza straniera si avvicenda con il potere dei vescovi fino alla nascita e alla crescita del Comune. Una realtà in movimento che, dal Duecento in attesa di diventare «Porta d’Italia», accoglie l’arrivo dei Savoia.

di Renato Bordone, Giuseppe Sergi

Introduzione

Giunta in Italia nel 568, una forza d’occupazione formata da Longobardi, Eruli e Turingi si insediò nel Torinese nel 570. La guida della “coalizione” era saldamente nelle mani dei Longobardi che stabilirono quattro ducati nel Piemonte altomedievale: tre capoluoghi erano a San Giulio d’Orta, Ivrea, Asti, uno a Torino, ma i confini fra i territori non erano precisi (la tradizione tribale-militare non prevedeva nozioni territoriali e provinciali chiare) sebbene i duchi avessero sedi stabili, quasi sempre collocate in città. La corte ducale torinese era situata nella zona compresa, oggi, fra le vie Torquato Tasso, IV Marzo e Porta Palatina e la memoria della sede si mantenne a lungo, se nel 1102 vi troviamo una chiesa intitolata a S. Pietro de curte ducis. Da questo luogo i duchi comandavano le guarnigioni sparse in un ampio territorio circostante. Nel 591 fu eletto re di tutti i Longobardi un duca di Torino, Agilulfo, che era definito anche “duca dei Turingi”, popolazione unitasi ai Longobardi dopo che a nord delle Alpi il loro regno era stato abbattuto dai Franchi nel 531.

Alla base dell’arco alpino occidentale c’era il delicato confine fra le dominazioni franca e longobarda: i punti di frontiera più importanti erano nei fondovalle di Aosta e di Susa, nei siti fortificati di Bard e di Chiusa.

Dopo il 575, in seguito alla cessione da parte dei Longobardi delle valli d’Aosta e di Susa al re merovingio Gontrano, Torino fu più legata alla Pianura Padana che alle regioni transalpine, benché fino alla dominazione di Sìsige (un capo goto riconosciuto da Bisanzio), non fosse stato così; lo dimostra il fatto che anche i vescovi di Torino da qualche anno avevano dovuto rinunciare al governo ecclesiastico di alcune zone di là dal valico del Moncenisio.

L’importanza strategica del ducato di Torino spiega anche perché oltre ad Agilulfo altri due duchi torinesi (Arioaldo e Ragimperto) ottennero la corona del regno dei Longobardi e si trasferirono nella capitale Pavia.

I gruppi tribali multietnici a conduzione longobarda furono tuttavia limitati: le due necropoli conosciute più consistenti sono presso Testona, con 350 sepolture comprese fra il secolo VI e il VII, e a Collegno, con 73 sepolture collocabili fra il secolo VI e l’VIII. Tracce dell’insediamento longobardo nei secoli VI-VIII sono in città, presso la chiesa di S. Giovanni, e, nel suburbio, a nord di Pecetto, presso la chiesa collinare di S. Vito, nei pressi dell’attuale via Nizza, al Lingotto, a Sassi, a Fioccardo (sugli odierni confini di Torino verso Moncalieri) e nell’area di Madonna di Campagna.

La Marca d’Ivrea e il crescente potere ecclesiastico

Di Torino subito dopo l’arrivo dei Franchi, che superarono le Chiuse di Susa nel 773, le fonti dicono poco. Il personaggio più noto di quella fase è il vescovo Claudio (816-827), un intellettuale capace anche di condurre imprese militari, in quanto maggiore figura di comando riconosciuta dagli abitanti. Esisteva, tuttavia, un comitatus civile (provincia governata da un conte) di Torino, e ne abbiamo la prova quando, nell’880, un conte di nome Suppone presiedette il tribunale a Torino, prima della deposizione dell’imperatore Carlo il Grosso nell’888.

Dall’888 al 950, senza la presenza dei re carolingi, il comitato fece parte di una circoscrizione maggiore, la Marca con capoluogo a Ivrea: su Torino si estese quindi il governo di marchesi (Anscario I e II, Adalberto, Berengario II) che risiedevano nel capoluogo eporediese. Torino mantenne tuttavia la funzione di centro del suo comitatus sia nel periodo dei diversi re che si alternarono sul trono d’Italia, sia durante il governo dei re sassoni (gli Ottoni). Dal 950 al 1091 la città fu capoluogo, oltre che del comitato, di una Marca vastissima che comprendeva anche Asti, Alba, alcuni comitati senza centri urbani (Auriate e Bredulo) e la Liguria occidentale (Albenga e Ventimiglia). In questa fase del Medioevo la “centralità” di Torino si applicò alla regione più ampia, e il controllo delle strade (in particolare la via Francigena della valle di Susa diretta verso il valico del Moncenisio) fu totalmente appannaggio dei marchesi torinesi.

In quel periodo la sede urbana del potere si spostò, allontanandosi dalla Porta Palatina, cuore dei poteri romano e longobardo, verso la “porta di Susa” della città, presso la quale aveva sede il palazzo da cui i marchesi di Torino amministravano il potere. Questi influenti governatori (Arduino III, Manfredo, Olderico Manfredi) appartenevano alla dinastia degli Arduinici, ma, sembra, non fossero parenti del celebre re Arduino d’Ivrea. Dopo la morte del marchese Olderico Manfredi

(1035) la dinastia fu tenuta insieme da una donna, la contessa Adelaide, che governò “di fatto” in vece di una serie di marchesi maschi: in successione, tre suoi mariti (sempre prematuramente morti), un suo figlio e un marito di sua figlia. La Marca si sfaldò nel 1091, appunto con la morte di Adelaide. Da quell’anno il vuoto di potere consentì ai vescovi di incrementare la propria influenza anche in ambito civile sulla città (pur non corrispondendo all’idea dei vescovi-conti che ci è stata erroneamente tramandata), mentre il Torinese diventava campo di concorrenze tra forze signorili diverse e le periferie della grande Marca svincolavano la propria storia dal loro antico centro di riferimento.

Il potere “allargato” dei vescovi su Torino e sul territorio, che durerà sino all’affermazione dei Savoia nel 1280, venne esercitato dalla cattedrale, di nuovo quindi nella zona della Porta Palatina. L’area governata non era tuttavia molto estesa: la frontiera rispetto ai Savoia si collocò per circa due secoli a Rivoli, in linea con il castello del vescovo affidato a una famiglia di funzionari (advocati) proveniente dalla collina torinese: i signori di Moncucco. Altro castello vescovile importante - usato talora come residenza vescovile - era quello di Testona, insediamento che si sviluppò in quegli anni nella nuova fondazione di Moncalieri.

Intorno alla città si radicarono poteri signorili locali (i Baratonia, i Rivalta, i Piossasco e numerosi altri), mentre tutto il Piemonte meridionale smise di orbitare su Torino, divenendo teatro di altre affermazioni (i marchesi di Monferrato e di Saluzzo), e si instaurarono anche poteri signorili di monasteri, come S. Giusto di Susa e S. Michele della Chiusa. A Torino ebbe grande sviluppo il monastero di S. Solutore: dal centro torinese (vicino all’attuale corso Palestro) l’abbazia compì ricche acquisizioni patrimoniali (in particolare a Sangano e a Carpice, nel territorio di Moncalieri) dove esercitava anche poteri signorili.

La nascita del Comune e l’ascesa dei Savoia-Acaia

Nei primi decenni del secolo XII al potere ecclesiastico si affiancò quello del Comune, costituito da famiglie ricche, prevalentemente per il prestito di denaro, che si potenziarono in accordo con il vescovo, al quale prestavano omaggio vassallatico. L’alleanza fra i due attori si cementò grazie alla condivisa resistenza all’avanzata dei Savoia, il cui potere era allora solido fino ad Avigliana. Il Comune torinese innescò anche concorrenze e provvisorie alleanze con comuni limitrofi come Chieri e Testona. Le sue famiglie dominanti avevano caratteri sociali ambigui, in parte borghesi in parte aristocratici, collocavano propri membri nel collegio dei canonici della cattedrale e proteggevano quegli enti religiosi che, non limitandosi a essere comunità di preghiera, fornivano alla società torinese servizi ospedalieri e di accoglienza dei viandanti. Un ricco torinese, Pietro Podisio, appunto per scopi di utilità sociale, fondò nel 1146 l’abbazia-ospedale di San Giacomo di Stura (oggi badia di Stura).

Nel Duecento due zone della città contenevano i poli di governo del Torinese: quelle in cui ancora oggi si trovano la cattedrale e il municipio. Nel 1280 il marchese Guglielmo VII di Monferrato cedette Torino a Tomaso III di Savoia, ma la successione passò al fratello Amedeo V che nel 1294 lasciò al nipote Filippo d’Acaia, figlio di Tomaso, i domìni del Piemonte e la città. Con il passaggio sotto i Savoia tramontò l’autonomia politica del Comune di Torino, anche se l’organismo dirigente comunale sopravvisse, controllato dal patriziato urbano che occupava e controllava l’accesso ai seggi del Consiglio comunale diventati poi ereditari. Un estremo tentativo di rivolta anti-sabauda si manifestò ancora nel 1334, soffocato da dure repressioni da parte del principe che, al tempo stesso, favorì l’istituzione della «Società popolare di S. Giovanni» per bilanciare il potere magnatizio, allargando ai nuovi ceti produttivi, che ne erano ancora esclusi, la partecipazione alla vita amministrativa del Comune.

Al principio del Trecento Filippo – il cui titolo di principe d’Acaia derivava dal matrimonio con Isabella, figlia del principe d’Acaia Gugliemo II di Villehardouin – governava anche l’area meridionale dell’attuale provincia di Torino e quella intorno a Pinerolo, dove Filippo di preferenza risiedeva: il principe mantenne tuttavia interesse per la città, facendo ristrutturare fra il 1317 e il 1320 il preesistente castello di Porta Fibellona (attuale Palazzo Madama). La sua funzione prevalente, come sede di guarnigione, era esercitare il controllo sugli abitanti della città dalla quale era separato dal fossato e dal ponte levatoio.

A metà del XIV secolo Giacomo d’Acaia, con velleità indipendentiste,

provocò la reazione di Amedeo VI che lo dichiarò decaduto, avocando a sé il principato: Torino accolse di buon grado il Conte Verde, perché nel 1360 restituì al Comune la libertà legislativa insieme all’approvazione della raccolta dei nuovi statuti (Libro della Catena). Pur sotto i Savoia, dal 1362 i reinsediati Acaia rimasero poi al potere ancora mezzo secolo: il castello di Porta Fibellona al principio del Quattrocento fu restaurato e ampliato dal principe Ludovico, che morì senza discendenza nel 1418 consentendo ad Amedeo VIII di incorporare nel suo Stato la grande dominazione del Piemonte.

Sotto gli Acaia la sede del governo della città si collocava presso l’attuale piazza Palazzo di Città, detta platea Taurini o platea civitatis, allora collegata direttamente con la piazzetta della chiesa di S. Gregorio (ora San Rocco) di fronte alla Torre Civica, all’incrocio fra le attuali vie Garibaldi e S. Francesco. Nei pressi si teneva il mercato del pesce, mentre il mercato del grano si trovava davanti alla chiesa di S. Silvestro (ora del Corpus Domini). Fra i muri della platea civitatis c’erano i laboratori dei calzolai e i banchi dei macellai, circondati da botteghe artigiane. In questa fase, forte fu l’oscillazione demografica per le ricorrenti epidemie diffusesi dal 1348 alla prima metà del Quattrocento: la popolazione si attestava probabilmente allora sulle 3-4.000 unità.

Il Comune di Torino non aveva costruito, a differenza dei maggiori Comuni piemontesi, un vasto distretto territoriale, ma – ereditando in parte le 10 miglia di distretto accordate da Federico Barbarossa al vescovo nel 1159 – controllava un’area circostante di circa 15 chilometri di raggio. Il territorio extraurbano del Comune era delimitato a nord dai borghi di Leinì, Caselle, Borgaro e Settimo, a ovest da Collegno, Grugliasco e Rivalta, a sud dal torrente Chisola e a est dal crinale collinare esteso fra Moncalieri e Gassino. Non esistevano borghi con proprie comunità organizzate, tranne Grugliasco (però infeudata nel Duecento ai signori di Piossasco) e Beinasco, due dipendenze (“titoli”) che Torino tenne per tutto l’antico regime. Sulla destra del Po sorgeva la chiesa di S. Vito «de Montepharato» con un piccolo villaggio: a valle si poteva guadare il fiume per raggiungere la chiesa di S. Salvario. Un vero centro abitato, detto Malavasio, doveva sorgere in val S. Martino, e insediamenti sparsi si trovavano a Sassi. Sulla sponda sinistra tutta la zona pianeggiante era definita la “campagna” (Campanea) di Torino, come attesta ancora il nome di Madonna di Campagna, mentre a occidente, sui diversi sbocchi della via Francigena, si erano già sviluppati il borgo di S. Donato e di Colleasca e le fondazioni ospedaliere di Pozzo Strada.

Il Quattrocento: l’università e il duomo nuovo sono i simboli del nuovo prestigio di Torino

Un primo segnale del rinnovamento urbano fu nel 1404 la concessione, da parte del papa avignonese Benedetto XIII, di istituire uno Studium Generale a Torino, confermata nel 1412 dall’imperatore Sigismondo. Al principio l’università funzionò in modo discontinuo, perché i docenti preferivano risiedere e insegnare a Chieri e a Savigliano, considerati più salubri durante le epidemie; nel 1436 il consiglio comunale di Torino riuscì a ottenere patenti ducali che stabilirono in città la sede definitiva dello Studium. L’edificio, ora non più esistente, sorgeva allora in via S. Francesco, davanti alla chiesa di S. Rocco e accanto alla Torre Civica.

Da quando nel 1418 era passata alle dipendenze dirette del duca Amedeo VIII di Savoia, Torino si avviò a diventare uno dei centri burocratici più importanti del territorio sabaudo. Grazie anche al prestigio della sede episcopale, la città fungeva occasionalmente da sede del principe e della corte; in particolare vi si riuniva spesso il Consilium cum domino residens, organismo itinerante al seguito del signore con funzioni politico-amministrative e giudiziarie su tutti i domìni. In seguito un nuovo organismo amministrativo con competenze specifiche per l’area di qua dalle Alpi, chiamato “consiglio cismontano”, fissò la propria sede a Torino, in considerazione della collocazione

stradale della città verso la pianura lombarda; dal 1459, infine, vi si stabilì in modo permanente, riunendosi nel castello di Porta Fibellona, anche per agevolare la partecipazione di personale burocratico uscito dallo Studio torinese.

Ne 1472 il Comune acquistò il primo nucleo dell’attuale Palazzo Civico, mentre in precedenza il consiglio comunale si riuniva presso case private o nella Torre. L’attrazione esercitata dalla città dalla seconda metà del Quattrocento invertì il flusso demografico negativo: al principio del Cinquecento la popolazione raggiunse infatti le 5-6.000 unità, e si sviluppò nei sobborghi cresciuti fuori porta Segusina e porta Doranea e sorti vicino al ponte sul Po. Il Quattrocento si chiuse con la trasformazione del vecchio complesso della cattedrale: fu costruito un nuovo grande campanile (1469), ma un radicale rinnovamento architettonico si ebbe con il vescovo Domenico della Rovere, mecenate che fece edificare il nuovo duomo secondo i dettami rinascimentali (estranei fin allora al Piemonte) su progetto di Bartolomeo di Francesco di Settignano, detto Meo del Caprina: i lavori ebbero inizio nel 1491 e si protrassero fino al 1505, quando la chiesa fu solennemente consacrata.

La città si prepara a essere capitale del ducato

Negli anni delle “guerre d’Italia” tra Francesi e imperiali si susseguirono passaggi degli eserciti dei re di Francia, ospitati nel castello di Torino (Luigi XII nel 1507, Francesco I nel 1515); per contrastare le mire dei francesi (che nel 1511 avevano ottenuto lo scorporo di Saluzzo dalla diocesi di Torino), il duca Carlo II e il vescovo Giovanni Francesco della Rovere nel 1513 ottennero dal papa che Torino divenisse sede arcivescovile. Il duca fece anche costruire quattro bastioni agli angoli della cinta muraria e un baluardo davanti al castello. Nonostante ciò i Francesi nel 1536 occuparono Torino con facilità, bene accolti dagli abitanti, mentre il duca e la corte si ritiravano a Vercelli. In seguito i Francesi fecero radere al suolo i borghi fuori le mura che impedivano il tiro delle artiglierie: scomparvero così i borghi di porta Segusina, di porta Dora e di Po e le chiese suburbane, fra cui l’antica abbazia di S. Solutore.

Nel 1538 il Piemonte sabaudo fu annesso al regno di Francia e nel 1539 Francesco I istituì a Torino un Parlamento e la Corte dei Conti, mentre l’università fu temporaneamente soppressa. Nel 1548 il re Enrico II entrò trionfalmente a Torino, ora governata da un viceré. Solo nel dicembre 1562 i Francesi lasciarono la città: nel febbraio 1563 vi

sarebbe entrato il duca Emanuele Filiberto che prese residenza nel palazzo dell’arcivescovo. Sotto i Francesi la città ebbe un impulso economico e demografico, anche se le 10-12.000 unità furono superate solo con il ritorno dei Savoia e con l’organizzarsi della corte. La posizione geografica contribuì allo sviluppo delle strutture ricettive di Torino: si contavano, allora, oltre una cinquantina fra alberghi e taverne e alcuni albergatori raggiunsero un rango elevato, come i titolari dell’albergo del Cappel Rosso, situato presso l’incrocio di via Garibaldi con via Porta Palatina e dotato di 14 letti e di una cantina di cinque botti. Alla prima metà del Cinquecento risale anche la sistemazione dell’albergo della Corona Grossa (edificio tuttora esistente in via IV Marzo), attestato nel 1523 come Hospicium Corone.

Con interruzioni e accelerazioni, il Medioevo di Torino preparò il definitivo assestamento della città come capitale del principato sabaudo: una funzione che per molti secoli, sino alla fine del Duecento, non era stata affatto fra le sue “vocazioni”, anche se la centralità rispetto a un ampio territorio fu un suo carattere indubbio già dall’alto Medioevo, con la sola interruzione della dipendenza da Ivrea dall’888 al 950.

Per saperne di più

  • G. P. Brogiolo, A. Chavarria Arnau (a cura di), I Longobardi. Dalla caduta dell’impero all’alba dell’Italia, Silvana, Cinisello Balsamo 2007.

  • G. Casiraghi, La diocesi di Torino nel medioevo, Deputazione subalpina di storia patria, Torino 1979.

  • G. Sergi, Potere e territorio lungo la strada di Francia. Da Chambéry a Torino fra X e XIII secolo, Liguori, Napoli 1981.

  • G. Sergi, I confini del potere. Marche e signorie fra due regni medievali, Einaudi, Torino 1995.

  • G. Sergi (a cura di), Storia di Torino, I, Dalla preistoria al comune medievale, Einaudi, Torino 1997.

  • R. Comba (a cura di), Storia di Torino, II, Il basso medioevo e la prima età moderna, Einaudi, Torino 1997.

  • R. Bordone, S. Pettenati (a cura di), Torino nel basso medioevo: castello, uomini, oggetti, Musei Civici, Torino 1982.