La città contemporanea - Il Novecento

M. Dottavio - Lingotto

Città-fabbrica per antonomasia e meta di sempre nuove immigrazioni, nel corso del Novecento Torino dissolve la logica della crescita tradizionale per parti contigue. Nel secondo dopoguerra esplodono contraddizioni e potenzialità che ancora oggi, nel pieno di una sfida di rinnovamento e reinvenzione, coesistono nella città reale e in quella progettata.

di Antonio De Rossi

Introduzione

Per lunga parte del Novecento, Torino è la ville industrielle per antonomasia, un caso esemplare, come è stato scritto dal geografo Arturo Lanzani, di «forma spaziale tipica di una società locale fordista». La configurazione della città-fabbrica e la sua immagine totalizzante fanno da pendant al paradigma della crescita, che guiderà Torino fino alla crisi di sistema che si avvia alla fine degli anni Settanta. Una crescita sovente non accompagnata dalle figure tipiche della modernità, perché la one company town non ha bisogno di altre immagini in cui identificarsi, oltre quella che lega capitale e lavoro.

Dagli anni Ottanta i modelli entrati in crisi non verranno sostituiti da altri paradigmi, neanche alternativi. Si lavora semmai per articolazioni di immagini, per presa di distanze successive. E forse, è proprio sul tema delle trasformazioni della città fisica che si possono registrare le maggiori differenze: alla crescita senza fine, alla compenetrazione tra lavoro e residenza, si sostituiscono i temi della riqualificazione e della riscrittura-densificazione del costruito.

Ma quali sono le fasi che segnano la storia di Torino durante il Novecento?

Tra le due guerre

La fase che si apre dopo il primo conflitto mondiale vede innanzitutto un processo di riorganizzazione delle strutture produttive sorte durante l’iniziale fase di industrializzazione di fine Ottocento e inizio Novecento. Simboli di questa fase sono gli stabilimenti di Fiat Lingotto e Fiat Mirafiori.

La trama che in qualche modo regge e orienta l’ampliamento della città è sempre quella del Piano regolatore del 1906-08, insieme ai tracciati dei grandi assi storici e dei fiumi.

Il dato di novità profonda sta però nel fatto che si tratta di una trasformazione per grandi “tasselli” – quelli dell’industria, dei quartieri di edilizia popolare pianificata, dei grandi servizi collettivi, del tempo libero – che operano simultaneamente per sovrapposizione rispetto al palinsesto storico rurale preesistente e per giustapposizione nei

confronti dell’edificato di bordo delle barriere operaie.

È una modalità di costruzione della città (per “concentrazione di funzioni” e contemporaneamente per “dispersione nello spazio”) che inizia a dissolvere la logica della crescita per ampliamenti contigui e per regole morfologiche tradizionali e che anticipa quella “nuova dimensione” della città che prenderà corpo in modo più radicale nel secondo dopoguerra.

L’opera di riorganizzazione trova riscontro anche all’interno della città storica nel progetto di via Roma Nuova (1931-37), in cui retoriche della dittatura e intenzionalità razionalizzanti della città fordista sembrano poter coincidere. In realtà le discontinuità della morfologia della nuova città costruita sono il simbolo di un mercato che continua a essere imperfetto e intorno a cui si scontrano nuovi e antichi attori.

La “grande mano” della ricostruzione postbellica

La Torino che dal secondo dopoguerra si spinge attraverso il boom economico fino alla fine degli anni settanta si connette alla città precedente senza soluzione di continuità. Al tema della crescita si aggiunge però quello della quantità.

Dal punto di vista fisico, si può utilizzare l’immagine della “grande mano” messa a punto da Giorgio Rigotti per il Piano regolatore del 1956-59, metafora spaziale della crescita a macchia d’olio del costruito che inizia progressivamente a invadere l’intera piana torinese. Un’immagine forte e condivisa, come l’idea che la città cresca con e grazie alla fabbrica, secondo un processo che l’assimila a un organismo biologico.

In questa «gigantesca infrastruttura a servizio della produzione» FONTE?, come ha scritto Raffaele Radicioni, urbanista torinese, tutto viene ricondotto all’idea della città-fabbrica. Per lunghi anni la circolarità e sovrapposizione tra spazi del lavoro e della residenza – industrie e quartieri operai – pare essere totale e assoluta, senza soluzione di

continuità. Una città in cui anche il centro storico viene trasformato in periferia: i ristretti ceti alto-borghesi ora abitano la collina. In questo quadro le celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia diventano occasione per la costruzione di un momento “altro” rispetto all’immagine totalizzante della città-fabbrica. Monumento e mito condiviso della modernizzazione e della nuova Torino dell’immigrazione, Italia ’61 racconta le speranze legate al boom e al nuovo governo di centrosinistra, e resta l’unico episodio urbano pianificato e di matrice pubblica non riconducibile alle sole ragioni della produzione e della crescita.

La crisi di sistema della seconda metà degli anni settanta fa implodere il gigantismo industriale dei decenni precedenti: svuotando le retrovie industriali consolidate, la crisi rende per la prima volta fragile la linea del costruito che avanza nelle campagne.

Tra anni ottanta e novanta: la crisi come occasione

La crisi viene interpretata come un’occasione per ripensare radicalmente la struttura produttiva e morfologica di Torino e della sua area metropolitana. Diversificare e articolare la matrice economica e sociale, riscrivere e riconfigurare la strutturazione fisica sono le parole d’ordine che – mano a mano che si prende coscienza della trasformazione in atto – guidano il cambiamento.

A orientare e promuovere la mutazione è il dibattito che, tra anni Ottanta e Novanta, porta all’approvazione del nuovo Piano regolatore della città (1995) che fungendo da scenario di riferimento mette in relazione i molteplici progetti di trasformazione, che pongono l’accento sul telaio del trasporto pubblico (il passante e il servizio ferroviario metropolitano, le linee della metropolitana), sulla riscrittura dei tessuti industriali (il riuso del Lingotto, le Spine, le Zone urbane di

trasformazione), sulla trama storico-ambientale (il sistema delle residenze sabaude, Corona Verde e i fiumi), sulla riqualificazione del centro e sull’offerta culturale (i musei dentro i grandi complessi del Barocco e dell’Ottocento, l’arte contemporanea e il cinema, le istituzioni universitarie e la “movida” per i giovani).

Centrale in questa fase è il ruolo di indirizzo e supporto giocato dal settore pubblico, con i grandi eventi (dai Giochi olimpici invernali al 150° dell’Unità d’Italia) che diventano occasione per sostenere questo disegno di cambiamento.

La metamorfosi fisica non è però solo di riscrittura interna. Mentre muta la società torinese, con un forte incremento della componente di origini straniere, cambiano anche le geografie profonde della città, oramai divenuta sistema metropolitano compiuto.

La nuova dimensione metropolitana

Le trasformazioni iniziate nell’ultimo decennio del Novecento mettono in gioco una dimensione realmente metropolitana dell’area torinese, che necessita di essere morfologica e politica al contempo. All’interno di questo ineludibile processo di “metropolizzazione”, che dovrebbe determinare una riscrittura del costruito evitando nuovi consumi di suolo verso l’esterno, alcuni progetti di grande scala possono venire ad assumere il ruolo di telaio entro cui collocare le singole trasformazioni.

Strategico, in questo senso, è il Servizio ferroviario metropolitano che – sfruttando grazie al Passante le linee ferroviarie radiocentriche innervate su Torino – rappresenta una straordinaria occasione non solo per riconfigurare in maniera più sostenibile la mobilità dell’area metropolitana, ma anche per un profondo ripensamento delle gerarchie e strutturazioni del territorio torinese.

Un secondo progetto-telaio è quello di Corona Verde, che muovendo dai fuochi delle residenze sabaude della «Corona di delitie» ambisce a costruire un anello ambientale capace di riqualificare e dare senso a

frange e periferie dell’area metropolitana.

Un progetto che si unisce a quello di Torino Città d’Acque, che utilizza i quattro fiumi come corridoi ambientali per la qualità del sistema urbano.

Su questi telai e armature si inseriscono i singoli progetti: tra tutti, quello fondamentale della Linea 2 della metropolitana, con la riqualificazione dei quartieri dell’area Nord; il riuso delle immense piastre industriali dismesse poste a sud e a nord della città; le progettualità intorno corso Marche; l’alta capacità ferroviaria.

In definitiva la visione delle tre centralità lineari nord-sud che erano alla base del Piano regolatore Gregotti-Cagnardi del 1995 – la Spina centrale allungata al Lingotto, il nuovo asse di corso Marche, il Progetto Po – sembra non bastare più. La visione si allargando all’intero territorio metropolitano e la dimensione dei progetti sembra mettere in gioco uno spazio geografico complessivo in cui rientrano, finalmente, la piana, la collina e le Alpi.

Per saperne di più

  • P. Gabert, Turin ville industrielle, Presse Universitaires de France, Parigi 1964

  • A. Magnaghi, M. Monge, L. Re, Guida all’architettura moderna di Torino, Designers Riuniti, Torino 1982

  • L. Mazza, C. Olmo (a cura di), Architettura e urbanistica a Torino 1945-1990, Allemandi, Torino 1991

  • Torino da capitale politica a capitale dell'industria, 2 voll., Archivio Storico della Città di Torino, Torino 2004

  • A. De Rossi, G. Durbiano, Torino 1980-2011. La trasformazione e le sue immagini, Allemandi, Torino 2006

  • A. Bagnasco, C. Olmo (a cura di), Torino 011. Biografia di una città, Electa, Milano 2008

  • Urban Center Metropolitano, Torino 1984-2008. Atlante dell'architettura, Allemandi, Torino 2008

  • M.A. Giusti, R. Tamborrino (a cura di), Guida all’architettura del Novecento in Piemonte (1902-2006), Umberto Allemandi & C., Torino-Londra-Venezia-New York 2008

  • A. Martini, La città dell’industria. Mito, visione e progetto, in E. Castelnuovo (a cura di), Torino, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondato da G. Treccani, Roma 2010, pp. 135-146