Torino nei versi di Gozzano
Guido Gustavo Gozzano nacque a Torino nel 1883 e qui morirà nel 1916. A Torino sono le radici della sua formazione, fra Torino e Agliè si svolge la sua vita e si ambienta la maggior parte della sua produzione letteraria; con l’unica esotica eccezione del viaggio in India del 1912.
Se la città è oggetto esplicito di molte sue prose, nella poesia Torino è piuttosto evocata che direttamente descritta. Ma ad essa rimandano, in modo indubbio, quadri, personaggi e atmosfere: è Torino la città dalle «vie diritte» sulla quale vola la cavolaia, è torinese la confetteria delle Golose.
Una certa “torinesità” (se il termine ha un senso) pare essere lo sfondo ideale per la sua poetica onestamente borghese, sempre più distante dalla «evidente inautenticità del “sublime” coltivato dal liberty dannunziano»*.
*Edoardo Sanguineti (a cura di), Poesia italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1971, 2 voll., vol. I, p. 428
01. “Un rimorso”
“Un rimorso”, La via del rifugio, 1907
I.
 O il tetro Palazzo Madama...
 la sera... la folla che imbruna...
 Rivedo la povera cosa,
 
 la povera cosa che m’ama:
 la tanto simile ad una
 piccola attrice famosa.
 
 Ricordo. Sul labbro contratto
 la voce a pena s’udì:
 "O Guido! Che cosa t’ho fatto
 di male per farmi così?"
 
 II.
 Sperando che fosse deserto
 varcammo l’androne, ma sotto
 le arcate sostavano coppie
 
 d’amanti... Fuggimmo all’aperto:
 le cadde il bel manicotto
 adorno di mammole doppie.
 
 O noto profumo disfatto
 di mammole e di petit-gris...
 "Ma Guido che cosa t’ho fatto
 di male per farmi così?".
 
 III.
 Il tempo che vince non vinca
 la voce con che mi rimordi,
 o bionda povera cosa!
 
 Nell’occhio azzurro pervinca,
 nel piccolo corpo ricordi
 la piccola attrice famosa...
 
 Alzò la veletta. S’udì
 (o misera tanto nell’atto!)
 ancora: "Che male t’ho fatto,
 o Guido, per farmi così?".
 
 IV.
 Varcammo di tra le rotaie
 la Piazza Castello, nel viso
 sferzati dal gelo più vivo.
 
 Passavano giovani gaie...
 Avevo un cattivo sorriso:
 eppure non sono cattivo,
 
 non sono cattivo, se qui
 mi piange nel cuore disfatto
 la voce: "Che male t’ho fatto,
 o Guido per farmi così?".
02. "Torino"
“Torino”, I Colloqui, 1911
I.
 Quante volte tra i fiori, in terre gaie,
 sul mare, tra il cordame dei velieri,
 sognavo le tue nevi, i tigli neri,
 le dritte vie corrusche di rotaie,
 l’arguta grazia delle tue crestaie,
 o città favorevole ai piaceri!
E quante volte già, nelle mie notti
 d’esilio, resupino a cielo aperto,
 sognavo sere torinesi, certo
 ambiente caro a me, certi salotti
 beoti assai, pettegoli, bigotti
 come ai tempi del buon Re Carlo Alberto…
“…se ‘l Cônt ai ciapa ai rangia për le rime…”
 “Ch’a staga ciutô…” – “‘L caso a l’è stupendô!…”
 “E la Duse ci piace?” – “Oh! mi m’antendô
 pà vaire… I negô pà, sarà sublime,
 ma mi a teatrô i vad për divertime…”
 “Ch’a staga ciutô!… A jntra ‘l Reverendô!…”
S’avanza un barnabita, lentamente…
 stringe la mano alla Contessa amica
 siede con gesto di chi benedica…
 Ed il poeta, tacito ed assente,
 si gode quell’accolita di gente
 ch’à la tristezza d’una stampa antica…
Non soffre. Ama quel mondo senza raggio
 di bellezza, ove cosa di trastullo
 è l’Arte. Ama quei modi e quel linguaggio
 e quell’ambiente sconsolato e brullo.
 Non soffre. Pensa Giacomo fanciullo
 e la “siepe” e il “natìo borgo selvaggio”.
II.
 Come una stampa antica bavarese
 vedo al tramonto il cielo subalpino…
 Da Palazzo Madama al Valentino
 ardono l’Alpi tra le nubi accese…
 È questa l’ora antica torinese,
 è questa l’ora vera di Torino…
L’ora ch’io dissi del Risorgimento,
 l’ora in cui penso a Massimo d’Azeglio
 adolescente, a I miei ricordi, e sento
 d’essere nato troppo tardi… Meglio
 vivere al tempo sacro del risveglio,
 che al tempo nostro mite e sonnolento!
III.
 Un po’ vecchiotta, provinciale, fresca
 tuttavia d’un tal garbo parigino,
 in te ritrovo me stesso bambino,
 ritrovo la mia grazia fanciullesca
 e mi sei cara come la fantesca
 che m’ha veduto nascere, o Torino!
Tu m’hai veduto nascere, indulgesti
 ai sogni del fanciullo trasognato:
 tutto me stesso, tutto il mio passato,
 i miei ricordi più teneri e mesti
 dormono in te, sepolti come vesti
 sepolte in un armadio canforato.
L’infanzia remotissima… la scuola…
 la pubertà… la giovinezza accesa…
 i pochi amori pallidi… l’attesa
 delusa… il tedio che non ha parola…
 la Morte e la mia Musa con sé sola,
 sdegnosa, taciturna ed incompresa.
IV.
 Ch’io perseguendo mie chimere vane
 pur t’abbandoni e cerchi altro soggiorno,
 ch’io pellegrini verso il Mezzogiorno
 a belle terre tiepide e lontane,
 la metà di me stesso in te rimane
 e mi ritrovo ad ogni mio ritorno.
A te ritorno quando si rabbuia
 il cuor deluso da mondani fasti.
 Tu mi consoli, tu che mi foggiasti
 quest’anima borghese e chiara e buia
 dove ride e singhiozza il tuo Gianduia
 che teme gli orizzonti troppo vasti…
Eviva i bôgianen… Sì, dici bene,
 o mio savio Gianduia ridarello!
 Buona è la vita senza foga, bello
 godere di cose piccole e serene…
 A l’è questiôn d’ nen piessla… Dici bene
 o mio savio Gianduia ridarello!…
03. "Della cavolaia"
“Della Cavolaia”, Le farfalle. Epistole entomologiche, 1914
[…]
La Cavolaia predilige gli orti,
 l'attira il bianco delle case umane;
 se scorge un muro, subito s'innalza,
 lo valica, discende alla ricerca
 di compagne festevoli ed ortaglie.
 E l'istinto sovente la sospinge
 nel cuor della città. Da primavera
 a tardo autunno, giunge nelle vie.
 E nulla è strano, come l'apparire,
 dell'inviata candida degli orti
 tra il rombo turbinoso cittadino.
 Allora s'interrompe il ragionare
 dell'amico loquace: - Una farfalla! -
 
 Com'è giunta nel cuor della città?
 Aveva la crisalide sui colli
 oltre il fiume, nell'orto di una villa.
 L'istinto delle razze numerose
 sospinge la farfalla ad emigrare;
 discese al piano, trasvolò sul fiume,
 valicò gli edifici, immaginando
 orti propizi e si trovò perduta,
 prigioniera nel grande laberinto
 di pietra che costrussero gli uomini.
 Da ore ed ore, forse dal mattino,
 s'aggira stanca per le vie diritte
 dove non cresce un filo d'erba o un fiore.
 Come si specchia nei diciottomila
 occhi stupiti il turbinìo dell'uomo?
 Forse a quei sensi minimi, la folla,
 le case, i carri, quei corpi grandi
 sono come la frana, il fuoco, l'acqua,
 fenomeni malvagi da fuggirsi. […]
04. "Le golose"
“Le golose”, Poesie sparse [pubblicata su “La Gazzetta del Popolo” del 28 luglio 1907 con la data “Torino, confetteria Baratti”]
Io sono innamorato di tutte le signore
 che mangiano le paste nelle confetterie.
 
 Signore e signorine -
 le dita senza guanto -
 scelgon la pasta. Quanto
 ritornano bambine!
 
 Perché niun le veda,
 volgon le spalle, in fretta,
 sollevan la veletta,
 divorano la preda.
 
 C’è quella che s’informa
 pensosa della scelta;
 quella che toglie svelta,
 né cura tinta e forma.
 
 L’una, pur mentre inghiotte,
 già pensa al dopo, al poi;
 e domina i vassoi
 con le pupille ghiotte.
 
 un’altra - il dolce crebbe -
 muove le disperate
 bianchissime al giulebbe
 dita confetturate!
 
 Un’altra, con bell’arte,
 sugge la punta estrema:
 invano! ché la crema
 esce dall’altra parte!
 
 L’una, senz’abbadare
 a giovine che adocchi,
 divora in pace. Gli occhi
 altra solleva, e pare
 
 sugga, in supremo annunzio,
 non crema e cioccolatte,
 ma superliquefatte
 parole del D’Annunzio.
 
 Fra questi aromi acuti,
 strani, commisti troppo
 di cedro, di sciroppo,
 di creme, di velluti,
 
 di essenze parigine,
 di mammole, di chiome:
 oh! le signore come
 ritornano bambine!
 
 Perché non m’è concesso -
 o legge inopportuna! -
 il farmivi da presso,
 baciarvi ad una ad una,
 
 o belle bocche intatte
 di giovani signore,
 baciarvi nel sapore
 di crema e cioccolatte?
 
 Io sono innamorato di tutte le signore
 che mangiano le paste nelle confetterie.
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