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Il recupero del patrimonio ruzantiano al repertorio scenico

è

di data recente. Il regista de Bosio, che ha cominciato a lavorare attorno al Beolco nel 1950, ha «inventato» di sana

pianta il gesto e la fonetica ruzantiana creando un «oggetto » ruzantiano vero e proprio. Sopra:

G.

Mauri e

D.

Perego nei

Dialoghi del Ruzante.

A destra: una scena dell'Anconitana

più drammatica appare nel Ruzante la

condizione del villano, in quanto essa

è

costretta a svoltolarsi da altre inten–

zioni: vogliamo dire che anche la vio–

lenza e la mortificazione che il villano

subisce, sul piano del comico e del sa–

tirico, dallo stesso Ruzante, contribuisce

a conferirgli il suo eccezionale spessore.

Esistono poi motivazioni di ordine sto–

rico che spiegano certa simpatia del Ru–

zante, e di riflesso quella dei signori

per i quali allestiva i suoi spettacoli,

nei confronti del mondo popolare.

I

contadini dei territori veneziani di ter–

raferma sono nei primi lustri del secolo

i protagonisti della guerra contro la coa–

lizione di Cambrai. Di contro alla pru–

denza e talvolta al tradimento dei loro

signori, essi si schierano apertamente

per Venezia e si fanno massacrare al

grido di « San Marco ». Li spingono al

furore le devastazioni degli eserciti im–

periali, la fedeltà alle insegne della

Repubblica che per la prima volta li

ha presi al suo soldo, la fiducia nel

governo veneziano, che tende a catturare

l~

benevolenza dei contadini con atteg–

giamenti riformistici e si vale di essi

per controllare le tendenze centrifughe

del patriziato.

Esiste un brano famoso di Machiavelli

scritto dal quartiere generale dell'impe:

ratore Massimiliano, che documenta lo

stupore suscitato in quegli anni dal com-

portamento delle truppe contadine:

« ... sono diventati più ostinati e arrab–

biati contro a' nimici de' Viniziani, che

non erano e' Giudei contro a' Romani;

e tutto dì occorre che uno di loro preso

si lascia ammazzare per non negare el

nome viniziano... considerato tutto, è

impossibile che questi Re tenghino que–

sti paesi con questi paesani vivi ».

Polemica sociale

Si sente l'eco precisa di tali avveni–

menti, nel dialogo « Reduce », dove al–

l'inizio affiora il grido di guerra «Mar–

co, Marco », ma come un'eco di tempi

remoti. Perché il villano scalcagnato e

pidocchioso che ha rischiato la pelle in

battaglia, e sia pure senza avere tempra

di guerriero, ha ormai piena consape–

volezza d'essere lui solo la vittima di

tante tristi vicende, del perdurare della

sua condizione miserabile.

È

il momento

della frustrazione, individuato dal Ru–

zante all'indomani della guerra e del–

l'improvvido entusiasmo;

è

lo sprofon–

damento in una elementarità ancora più

desolata , abissale. «Fossero impiccati

così i padroni », dice il reduce con una

esplicita intenzione di polemica socia–

le. «Quando il campo è rotto, perfino

Orlando scapperebbe », suona l'autodi-

fesa del contadino che smlt1zza, ad un

tempo, l'immagine di Orlando, super–

man del Rinascimento. Ed al culmine

di questo processo di smagamento, re–

sta l'immagine tragica, libera ormai da

ogni contaminazione parodistica, del

campo di battaglia: «Compare, non

vidi se non cielo e ossa di morti ».

Un dramma che qui si chiude con il riso

smemorato del protagonista bastonato

dal rivale, mentre in «Bilora» susci–

terà la sua reazione furente e omicida.

E si noti che

la

scena è ancora una

volta a Venezia, inferno del contadino

inurbato e munito fortilizio dei signori

che trovano il loro emblema nell'arbi–

trio, a suo modo patetico, di Andronico,

che

è

preso da senescente amore per la

Dina, vuole farsene illuminare gli ul–

timi anni di vita e per nessun motivo

è

disposto a restituirla al marito implo–

rante: Bilora appunto (il nome vuoI

dire

donnola, faina),

l'animale che, messo

alle strette, impossibilitato a salvarsi, si

avventa sull'inseguitore con le unghie e

coi denti. E si metta a confronto l'am–

biente, il paesaggio dei dialoghi ruzan–

tiani con quelli della coeva «Venexia–

na »: dove i canali di Venezia, così ca–

ratteristici, sono sempre allusi come

tramiti di lusso e voluttà per le imprese

amatorie degli eroi borghesi. Mentre in

« Bilora» troviamo un solo accenno,

ma così significativo, utilitaristico, alle

acque della laguna: «Volevo andare a

tirar le barche di giorno e di notte.. .

» .

Sicché può argomentare con sicurezza

lo Zorzi: «Di una certa idea del Rina–

scimento, elaborata sotto l'influsso del

decadentismo, che permeò larghi strati

della cultura italiana ed europea tra la

fine dell'ottocento e i primi decenni del

nostro secolo, il teatro del Ruzante co–

stituisce in certo senso il calco nega–

tivo. Esso ci svela il rovescio delle im–

magini idealizzate e stilizzate dalla gran–

de pittura veneta del quattro-cinque–

cento e di una gran parte della lette–

ratura ufficiale dello stesso periodo, ci

mostra sul sacrificio di quali classi e

ceti subalterni posasse il senso di im–

passibilità e di superiore armonia che

sembra spirare da quelle figurazioni ».

Questo, senza ergersi a cronista o a

ideologo del proprio tempo, ma addi–

rittura a contraggenio, per pura forza

di evocazione, andando dritto al cuore

e alla carne dei suoi umili eroi, in una

esperienza che si consuma rapidamente.

Tanto che negli ultimi lavori, « la Pio–

vana» e « la Vaccaria », nel tentativo

di rinnovarsi e cambiare strada, Ruzante

si lascia imbrigliare dalla commedia

classicizzante di derivazione erudita.

In

questo senso, impedendogli di calzare

il coturno del trageda, la morte fu al

Ruzante benigna.

Lorenzo Mondo

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