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La follìa d ’Adamo.

Visione tragica in quattro atti. Torino, A l­

fredo Formica, editore, 1929. L. 12.

Proseguendo nella sua aspra fatica — dopo

Pastorale

e dopo

Mirra

— il Pellicano con que­

st'ultimo lavoro afferma sempre più le sue doti

di lirico e sempre più accentua uno degli aspetti

più caratteristici della sua arte : quello di svuo­

tare i personaggi delle azioni d'ogni contenuto

umano contingente per assurgere al simbolo

puro.

E del simbolo puro s'incontra, sin dalle prime

pagine, l’atmosfera concitata e nebulosa, così che

ogni parola, ogni gesto dei personaggi hanno ar­

cane risonanze misteriose e — nello sfondo —

dietro ai lineamenti della vicenda, giganteggia

la fatalità.

Ma, mentre in

Mirra

prevale il lato umano,

mentre in

Pastorale

l'umanità e il simbolo feli­

cemente si fondono, qui il simbolo solo campeg­

gia e canta, in libertà lirica assoluta, senza che

più nulla di contingente lo inceppi o lo limiti.

E’ il vecchio mito di Ulisse : l’impossibilità del­

l’uomo a oltrepassare il limite; il mito cui già

Pellicano ha accennato in

Mirra,

per cui l’uo­

mo, spinto dal desiderio folle di superare la sua

umanità fatta di tempo di spazio e di materia,

si logora nello sforzo e paga, con la pazzia o con

la morte, l’ardimento sublime : La follìa di Ada­

mo che per divenire simile a Dio ha disdegnato

il divieto divino. Così facile invece sarebbe se­

guire la via della umanità, la

ocra e l’unica

via

che Dio ha tracciato all’uomo illuminandola con

l’amore ; Amore che ogni cosa purifica e dalla

pazzia può anche redimere. E rinunciare alla co­

noscenza del bene e del male, dell'infinito e

dell’eterno...

Dell amore della Donna e dell'amore della

Madre il Pellicano è cantore profondo e sugge­

stivo, ricco di melodia, di abbandoni, di sua-

denze e d'impeti. Meno forte e persuasivo sa

essere quando canta l'orgoglio dell'uomo e la

volontà di salire sempre più in alto e di vincere.

L’amore, invece, anche nella follìa è sacro e buo­

no e sa trovare gli accenti più ricchi di emoti­

vità e di verità.

E ciò — come già altre volte e più sopra ho

detto — perchè il Pellicano è essenzialmente un

lirico che meravigliosamente canta la sua passio­

ne, ma non sempre sa

oggettioare

i personaggi

delle sue finzioni creandoli, su la scena, l'un di­

verso dall'altro come nella realtà gli uomini

sono.

Dal che emerge un pregio altissimo per il poe­

ta che sa commuovere e raggiungere con purez­

za e semplicità di mezzi le vette più alte, ma

emergono contemporaneamente e inscindibil­

mente — pel drammaturgo — due grandi e in­

guaribili difetti : che tutti i personaggi si ras­

somigliano in quanto tutti si muovono in uno

stesso schema di moventi e di possibilità e che

i vari personaggi non risultano egualmente vi­

tali. Ne conseguono, necessariamente, disugua­

glianze nell'andamento del lavoro, sproporzioni

nelle scene, squilibrii nella intensità delle situa­

zioni per cui l'azione si sviluppa, nell’attenuarsi

e accentuarsi del

pathos

che anima e sostiene le

varie parti del poema : i difetti, cioè, insiti nella

stessa personalità artistica del Pellicano, che già,

esaminando i suoi precedenti lavori, ho avuto oc­

casione d: rilevare.

Ma — ove dalla intenzione drammatica si pre­

scinda, e in quest'ultimo dramma del Pellicano,

invece del drammaturgo, si cerchi il poeta lirico

soltanto — anche il lettore più esigente e raffi­

nato può trovare momenti felicissimi in cui !a

sofferenza e la gioia della passione hanno ade­

guata espressione nella forma più semplice ed

insieme più ricca, più efficace ed insieme più

limpida. Valga, ad esempio, nel terzo atto, la

scena fra il

Direttore

e la

Madre folle

in cui a

poco a poco i due personaggi umani e contin­

genti salgono dalla loro vicenda terrena sempre

a più alta espressione sino a diventare (ed è l’au­

tore stesso che improvvisamente ne muta la in-