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DON BOSCO SANTO ITAL IANO

all’Italia. Don Bosco vive nel sogno e fa del sogno

la vita, e quale vita! — Ma tutti sognano e tutti

costruiscono in quel tempo, anche quando contra­

stano. L’intera creazione della Patria è qui realtà

che nasce nel sogno e diventa fatto nel prodigio,

così che quella appare veramente come una prima­

vera, come una fioritura divina. La connessione fra

tutti questi artefici è così stretta che ciascuno dona

al vicino una parte di sè ed una parte ne acquista.

Nessuno potrà mai comprendere nella sua interezza

la figura di questo Santo se non considerandola viva

ed operante nei rapporti con questo suo mondo nel

quale il miracolo creativo è nella vita quotidiana,

con gli uomini fra i quali ha trascorsa in santità

eroica la Sua vita mortale.

È in lui la stessa stoffa degli uomini del Risor­

gimento. Di Vittorio Alfieri, dei De Maistre, di Gio­

berti, di Rosmini, di Massimo D’Azeglio, di Camillo

Cavour, di Lanza. È gente della Sua gente, più o

meno in alto per nascita nella scala sociale ma tutta

insieme protesa nello stesso sforzo non so se più per

trascinare un peso, o per sfondare un ostacolo, o

per conquistare una posizione militarmente contesa.

Del resto la connessione appare evidente quando si

consideri che Vittorio Alfieri, figlio spirituale di

Dante, è un poco il padre di tutti. Che Gioberti,

anch’egli divinatore come la storia scrive ogni giorno

nell’oggi ha penetrati gli spiriti di tutti i patrioti

del suo tempo, tanto che non è mistero come il

Cardinale Mastai Ferretti portasse con sè «il Pri­

mato »nel Conclave che lo fece diventare quel Papa

Pio IX il quale benedisse all’Italia da quel Quirinale

cui erano riservati destini d’impero. Che Massimo

D’Azeglio pittore e poeta ha tale forza politica in

sè da redigere quel proclama di Moncalieri pieno di

vaticinio che lancia al Parlamento appena nato la

sfida del potere esecutivo ed il monito sulla sua

sorte fatale nel giorno in cui si sia straniato dalla

vita del popolo. Che Camillo di Cavour muore da

credente cercando ed invocando da Dio una formula

perchè Chiesa e Stato possano trovare convivenza

in Roma immortale, formula trovata in modo riso­

lutivo sessantotto anni dopo da Colui che crea la

unità degli Italiani. Lanza il figlio del fabbro, che

viene a Roma nel 1870 umilicorde e tenace, specchio

di ogni virtù civile, nudo alla mèta come la Patria

che ritrovava in Roma la capitale sua e del

mondo.

Tutti costoro erano fratelli a Don Bosco.

I

Suoi amici erano i loro amici ed i Suoi nemici

erano i loro nemici. Erano tutti uomini di azione e

l’azione comune era rivolta al popolo italiano. È noto

a tutti come anche questo buon pastore, fatto prete

sognando i lupi che si cambiavano in pecore alla Sua

presenza, e gli sparvieri in colombe ed il Comanda­

mento austero e solenne di una grande signora che

non saprei se più rappresentasse la Madonna Ausi-

liatrice o la Chiesa o la natria, o tutte e tre insieme

com’era certamente una grande Madre, raccogliesse

intorno a si turbe di fanciulli senza volerne sapere,

come il Cottolengo pei malati, o nome o provenienza.

Gli furono nemici tutti i sordi, gli inetti, i retrivi;

gli furono amici tutti gli operanti e tutti i veggenti,

così come agli altri uomini del Risorgimento.

Michele di Cavour, ahi, quanto diverso dal figlio

anche per comprensione umana se pure più devoto

frequentatore di chiese e profondamente rispettoso

di forme cattoliche! — voleva chiudere gli oratori

del Santo e farlo arrestare perchè «

pericoloso e paz­

zesco

». Potè soltanto salvare Lui e l'opera Sua l’in­

tervento diretto con un ordine esplicito del Re

Carlo Alberto.

La Marchesa di Barolo, nota come dama di grande

pietà e tutta dedita ad opere di bene, non lo com­

prese mai. Il bene della Marchesa di Barolo era fatto

intendendo la carità con una mano inguantata che

dona il superfluo ai suoi sottoposti. La carità di Don

Bosco era intesa invece come la solidarietà sociale

di chi divide il suo pane col fratello che non ne ha.

Anche materialmente così ed in senso anche più

elevato l’aveva intesa il Santo quando era fanciullo

e quando per mesi interi cambiava ogni mattina il

pane di grano morbido e bianco uscito dal forno

materno, con quello di segala, nero e durissimo di

un compagno più povero. Al beneficato faceva cre­

dere di preferire al pane bianco quella materia le­

gnosa che non passava per la strozza; così che egli

pensasse di far benefìzio anziché riceverlo.

Dietro questi signori, in fondo a lor modo buoni,

stava una parte del Clero di Torino, non certamente

nè i Cottolengo, nè i Cafasso, nè i discepoli loro; ma

gente annidata tuttavia anche in Curia, il cui spirito

incomprensivo e piccolo la storia deve necessaria­

mente registrare come aridità di cuore. Alcuni dei

Suoi confratelli, e non fra i più malevoli, non sol­

tanto lo chiamavano pazzo, ma tale fermamente lo

credevano. Corre sulle bocche di tutti, ed è vera,

una delle più significative avventure che ne illumi­

nino la vita.

Andavano un giorno a lui due savi sacerdoti in

ima vettura chiusa avendo già fatto bene intendere

al cocchiere che non appena serrati gli sportelli,

dovesse lanciare i suoi cavalli e, senza sentir ragioni

di sorta, raggiungesse direttamente di buon trotto la

via Giulio e là l’ospizio chiamato dei due pini. Don

Bosco, con le maniere che si usan coi pazzi, fu invi­

tato dai due reverendi ad accompagnarli per una

passeggiata. — Finse egli di accettare e, pieno di

rispettosa attenzione e di cavalleria, non volle salire

in vettura prima degli invitanti; senonchè, quando

quelli furono seduti, chiuse di colpo lo sportello e

rimase a terra indicando al cocchiere il manicomio

ad alta voce. I due amici vi andarono così di trotto

serrato, accolti amorevolmente da chi attendeva

Don Bosco e, per loro castigo, non poterono liberar­

sene tanto presto.

Sarebbe inutile aggiungere che i due erano per

certo amici cari del ben celebre don Margotti, non

certamente degli artefici del Risorgimento, come non

lo erano del Santo.