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all' Albergo di Virtù, dove i mastri artigiani interni insegnavano ai giovani allievi

la

fab–

bricazione delle stoffe e nastri di seta, di bava o di cotone, dei galloni e delle calze d'o–

gni qualità, delle stoffe in lana, dei cappelli, o, ancora, li preparavano ai mestieri di

tornitore, tappezziere da mobili, serragliere, falegname, ebanista, fonditore di metalli,

sarto e calzolaio

' 4 .

In realtà, i lavori nelle manifatture interne o esterne non esaurivano

la gamma delle mansioni degli ospiti e, soprattutto, delle ospiti dei ricoveri, affiancan–

dosi, infatti, agli impieghi utili per il funzionamento della" casa", dal bucato alla cuci–

na , dalle pulizie alle infermerie; nel

1853,

dei circa 1100 individui che affollavano l'O–

spizio di Carità, erano soltanto 370 quelli addetti alle botteghe artigianali interne.

Nelle cosiddette «case d 'educazione», poi, «l'ammaestramento in ogni sorta di lavori

donneschi e di ago, l'economia domestica» erano le attività alle quali venivano adibite

le giovani ospiti , oltre che ad un «acconcio studio di lettere»'5.

Quest'ultimo aspetto introduce l'altro elemento della vita quotidiana negli ospizi,

ossia l'istruzione scolastica. Recependo

il

dibattito promosso da alcuni riformatori

sociali sulla necessità di prowedere all'istruzione dei ceti popolari, gli amministratori

degli istituti caritativi torinesi affiancarono infatti al lavoro l'impegno scolastico, gene–

ralmente incentrato sull 'apprendimento dei rudimenti del leggere, dello scrivere e del

far di conto; solo nelle istituzioni destinate alle donne di civile condizione a tali mate–

ri e si aggiungeva l'insegnamento del francese, della storia o della geografia. Per quanto

fossero tangibili i segnali di una crescente attenzione per l'aspetto scolastico, si tratta–

va , in sostanza, di un 'istruzione appena abbozzata, peraltro poco consistente se si pon–

gono a raffronto

il

numero di ore dedicate alla scuola con quelle impiegate al lavoro:

un 'ora di lezione al giorno all'Albergo di Virtù , cosÌ come nei due istituti delle Fami–

glie Operaie e delle Giuliette, a fronte , come si

è

visto, delle dieci, undici ore passate

nei laboratori o nelle botteghe.

Nella gran parte dei ricoveri, l'insegnamento era affidato agli ordini religiosi, suore

di Carità, di Sant'Anna , di San Giuseppe o fratelli delle Scuole Cristiane, elemento

questo che rimanda al discorso sulla più incisiva presenza dell 'educazione cattolica.

Catechismo, messe, preghiere nei dormitori e nei refettori, partecipazione alle proces–

sioni funebri: in tal modo, la religione si incuneava nei diversi momenti del giorno,

presentandosi sotto forma di storia illustrata nei quadri appesi alle pareti dell' asilo dei

Barolo o evocata nelle armonie del canto sacro insegnato agli apprezzati allievi della

reale cappella dell 'Ospizio di Carità. Tutto ciò in un ambito assistenziale che, pur

aprendosi alle istanze laiche e filantropiche, rimaneva ancora profondamente intriso

del concetto cristiano della carità , cui dava espressione non solo la prassi dei cosiddet–

ti «santi sociali» (Cottolengo, don Bosco, Cafasso) ma anche l'azione «tutta permeata

di accesa religiosità» di Tancredi e, soprattutto, di Giulia di Barolo

' 6 ,

o, ancora, la

variegata gamma di interventi dell'antica Compagnia di San Paolo, dispensatrice di

soccorsi a domicilio , di doti e vesti alle fanciulle povere, incaricata della gestione del

Monte di Pietà e amministratrice degli ospizi del Deposito e del Soccorso, oltre che

promotrice di pratiche religiose quali gli esercizi spirituali

'7 .

I ritmi del giorno in un ospizio risultavano scanditi, quindi, dal diverso dosaggio di

lavoro, istruzione e religione, prassi quotidiane legate fra loro da un denominatore

comune , ossia dalla volontà di disciplinare gli ospiti delle istituzioni assistenziali.

Volontà che aveva il duplice volto dell 'educazione e della punizione, quest 'ultima sem–

pre meno basata sulle pene corporali e caratterizzata piuttosto da castighi umilianti,

quali il comparire in ginocchio in refettorio dinanzi all 'intera comunità; da restrizioni

o privazioni delle diete alimentari ; o, ancora, dall'isolamento in celle oscure.

14

GUG Ll EL,\iIO STEFAN I e DOME ICO MONDO.

Torino

e SI/ai dinlorni. Cuida siorico, arlisliClI, amminislraliva e

commerciale.

Torino. Carlo Schiepatti . 1852, p. 242.

15

Ibidem,

p.

243.

212

16

G . ZOPPELLI ,

op. cii.•

p. 76.

l ì

D. BERTOLOTTI,

op. cit.,

p. 158. Si veda inoltre

MARIO ABRATE,

L'Istiluto Bancario San Paolo di Torino,

Torino, Istituto Bancario San Paolo di Torino, 1963.