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A

Montanaro, caratteristico paese del Canavese, per la bellezza dei suoi paesaggi, per la fer–

tilità delle campagne e per l'indole degli abitanti, Giovanni Cena nacque il

12

gennaio

1870

nalza «la piramide del Fréjus col!'angelo sospeso nel

cielo

».

Vi abita da quattro anni e soltanto in questo

tempo ha avuto inizio la sua vita

«

perché prima non

avevo vissuto, vale a dire non avevo sentito nulla den–

tro di me.. .

» .

«lo non avevo mai badato di propo–

sito agli inquilini delle soffitte...

»,

ma col passar del

tempo

«

davo più retta ora ai rumori della soffitta, alla

vita notturna di quella specie di chiostro aereo ave

nessuno conosceva

o

vedeva forse mai il vicino ...

E

allora sentivo qualcosa che entrava in me, qualcosa di

tutti quegli esseri.. .: pareva che la lor vita gravasse

sulla mia: non mi sentivo più

libero di essere solo

».

I nfranta così quella barriera invisibile che separava

Stanga dai suoi coinquilini, si inizia fra loro un rap–

porto di calda amicizia

o

di affettuosa protezione

per cui le miserie e i dolori vengono fraternamente

condivisi.

Ossessione dell'ombra

Ma è una solidarietà possibile solo fra diseredati: ben

pochi del mondo esterno s'interessano a loro ed ogni

volta che quei personaggi escono dalla soffitta e s'im–

mergono nelle strade, li accoglie una città fredda ed

estranea ai loro problemi e ai loro drammi. Soltanto

quando si raggiungono i colli, lo sguardo

-

come di–

cevamo prima

-

si rallegra e la vita per un'ora ap–

pare più serena. La gita in collina è d'altronde l'unico

lusso che può concedersi chi non ha ricchezze: «la

valle era tutta fiorita e mossa d'abiti chiari e d'om–

brelli variopinti, come se l'inverno imminente non sof–

fiasse nell'aria»; ma all'ora del ritorno un velo d'om–

bra già si ridistende su quelle creature che hanno avi–

damente bevuto la luce del sole: «molta gente scen–

deva per lo stradone battuto e bianco...: su tutte le

facce era la stanchezza e l'intontimento delle giornate

di sole passate all'aperto da gente che vive l'intera set–

timana nei laboratori e nelle case buie

».

Si può facil–

mente comprendere l'ossessione schiacciante che ha

dell'ombra questo nostro poeta, se ricordiamo ancora

com'egli vedesse nel sole il principio vitale del mondo:

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sono de

Gli Ammonitori

tali espressioni: «noi siamo

figli del sole

»;

«il sole è il nostro vero bene: per ora

non ce n'è uno maggiore

».

Ma fu proprio in quell'« umbra» delle soffitte e nel

gelo della città che maturò in Cena quel fiore d'altrui–

smo che già vedemmo in boccio nella

«

Piccola Casa

».

Poi, fu la grande avventura di Parigi. Là il suo oriz–

zonte si allargò enormemente e al soffio vivido dell'aria

di Parigi sbocciò quanto era maturato a Torino: «A

basso la letteratura pura, a basso l'educazione classica

e sopratutto gli educatori

~>;

« ...

ho bisogno di espli–

care le mie energie, ora, in una azione diretta ... Ora

ho bisogno di darmi, senza ritegno: dopo mi ricon–

centrerò a godere e soffrire la mia arte per farla sof–

frire e godere altrui

».

I ntanto,

il

provinciale che, sceso alla città, ne temeva

le braccia tentacolari, temprato dall'esperienza parigina

può ora scrivere: «Né Torino, né le altre città d'Italia

ora possono più cagionarmi ['inquietudine dell'igno–

to ...

»

e quando tornerà in Italia, Torino gli apparirà

«

una cittaduzza di provincia, un piccolo deserto

».

Ma

vi è soltanto di passaggio, per recarsi a Montanaro, né

vi soggiornerà mai. più in tutta la vita; Roma lo at–

tende per la

Nuova Antologia:

l'Agro romano sta per

trovare il suo benefattore.

Pochi anni dopo il suo arrivo a Roma, infatti, appena

dati alla luce

Gli Ammonitori,

scoperta la miseria in

cui vivevano le plebi contadine del Lazio, s'imbarcò

in quell'eroica impresa di redimere quelle genti abbru–

tite ed insegnar loro almeno i primi rudimenti del sa–

pere: nacquero così, fiorite dal sacrificio suo e di pochi

altri, le scuole per i contadini e gli asili per i loro

figlioli e la dignità umana fu riscattata .

Ma quell'opera svolta in una terra così diversa e lon–

tana dal Piemonte e dal suo Canavese, proprio quas–

-

abbiamo dimostrato

-

aveva le sue radici pro–

fonde: le impressioni della misera infanzia a Monta–

naro, dell'adolescenza al Cottolengo, della giovinezza

in borgo San Donato erano vive e presenti certamente

in Giovanni Cena mentre si prodigava con quell'abne–

gazione che era d'esempio agli altri, a soccorrere i fra–

telli in povertà dei suoi «ammonitori

».

«E

il mio

rimorso

-

scrisse

-

è d'aver fatto troppo poco ...

».

Simonetta Petruzzi

Uno aotologia dialettale

ricco d'inediti, accurato

e filologieaRlente severo

Letteratura in lingua e letteratura dialettale non si

voltano le spalle, ma

conjurant amice,

attestano at–

traverso

i

rispettivi culti, uno stesso amore per l'ar–

te della parola.

È

dunque un avvenimento che tocca

tutti gli Italiani colti l'uscita di questo splendido vo–

lume dell'editore torinese Casanova,

La letteratura

in piemontese dalle origini al Risorgimento,

che a

cura di

C.

Brero e R. Gandolfo, e con un «profilo

storico» di Giuseppe Pacotto, comprende una quan–

tità di documenti e testi, tra noti, poco noti e quasi

del tutto sconosciuti.

Quanti degli stessi piemontesi sapevano d'una loro

letteratura vernacola così « seguìta » nei secoli e fio–

rente? Diciamo

il

vero, poohi:

il

piemontese medio

(supposto che in tanta «confusion delle persone »

abbia conservato le proprie caratteristiche) ha tutta–

via caro

il

proprio dialetto in quanto strumento pra–

tico, se ne serve per discorrere o leticare

inter pares

e soprattutto in famiglia , e anche gli abbandona, sul–

l'esempio dei padri, quanti estri lo visitano tra sen–

timentali e satirici, onde la vigorosa e oggi anche in–

dustrializzata fioritura delle «canzoni della piola ».

Ma sotto

il

rispetto letterario, con qualche eccezione

per gli autori più vicini nel tempo, non gli accorda

molto credito: la soggezione per il toscano , che più

si fa sentire ai più lontani, convalidata dallo sfuria–

re che fece

il

grande Alfieri sul nostro gergaggio aUo–

brogo, opera profondamente su lui,

il

quale avrà

bene, come tutte le genti italiane, le sue borie mu–

nicipalistiche, ma non quella specificatamente idio–

ma tico-Ietteraria.

Interesse linguistico

Orbene questo bel libro, che tanto amato riceve dal–

la storia, par fatto apposta per rinfrancarci, per ren–

derei persuasi che accanto a una letteratura piemon–

tese spontanea, che si è perduta nei fossi, ne fiorì

stabilmente un'altra, riflessa, di gusto spesso squi–

sito. A questa soprattutto conviene guardare se non

si vuoI ricadere nelle angustie di quella critica che