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Le strade, diritte come spade, di Torino in cui era "sceso a conquista" per un
posto al sole - Fra i dolori del Cottolengo si andava formando l'uomo buono e
altruista e prendeva forma la larva del poeta - "Questo profumo di carne morente,
ch'era nell'aria come un acre incenso e l'infanzia, risveglio in un grande merig–
gio; tutto il seguito della mia vita non fu che la sera" - La sua opera di bene–
fattore nell'Agro romano, così diverso e lontano dal Piemonte e dal Canavese
traeva le sue radici profonde dalla misera infanzia a Montanaro, dall'adolescenza
al Cottolengo, dalla giovinezza in Borgo San Donato - L'inquietudine dell'ignoto
«Torino,
le tue strade, diritte come spade di fronte
all'Alpi inflessibili», tale il ricordo che rimase negli oc–
chi e nel cuore di Giovanni Cena di questa città che
l'accolse giovanetto e che da adulto poi abbandonò per
dimorare a Parigi, a Londra ed infine
-
definitiva–
mente
-
a Roma.
E
ci sembra che quel
«
pensiero
»,
risalente agli ultimi anni della sua vita, basti da solo
a farci intendere com'egli provò
-
e conservò per
sempre
-
di questa nostra città un'impressione irri–
mediabilmente ostile. Quelle strade
«
diritte come spa–
de» le aveva portate infisse nel cuore per tutto il
tempo della sua permanenza quassù e solo le evasioni
verso i ridenti dintorni collinari gliene avevano potuto
talvolta alleviare le trafitture.
D'altronde Torino fu il cerchio d'orizzonte in cui s'in–
scrissero gli eventi più tristi della sua vita e finché vi
rimase visse «in umbra mortis
».
Come pensare dun–
que che la città in cui era « sceso a conquista» per
un posto al sole, gli apparisse un paese felice , come
una sognata terra promessa?
«A undici anni un prete che presagiva di me grandi
cose, incitò mio padre a mandarmi in un ospizio a
T
0-
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rino.. ., sorta di comunità conventuale ove scopavamo
per turno i dormitori e rigovernavamo i piatti
».
Si
trattava in realtà della « Piccola Casa della Divina
Provvidenza
»,
il Cottolengo, in cui venivano ospitati,
fra gli altri, i ragazzi poveri che dimostrassero una
certa attitudine agli studi. « La vista di tante miserie
da cui eravamo circondati in quella casa del dolore -
racconterà poi un suo compagno d'allora, Ambrogio
Rolando
-
aveva echi profondi nei nostri cuori e ci
velava l'animo giovinetto di una precoce tristezza
».
Né l'ambiente dal quale Cena proveniva era molto più
allegro, ma in quella tetra prigione del castello diroc–
cato di Montanaro nel quale aveva visto la luce (ben
poca!), c'era l'amatissimo affetto materno, e fuori la
libertà dei campi: colà, invece, era proibito ai più
grandi persino accostare i ragazzi più piccini; il Cena,
però, che a casa era abituato a cullare frat ellini e so–
relline, aveva preso a proteggere un bimbetto francese
che invocava sempre
«
ma mère, ma mère
»,
quasi già
presentisse lo strazio che avrebbe provato lui quando,
più grande, avrebbe perduto la sua mamma adorata,
tanto tragicamente.
Mentre fra i dolori del Cottolengo si andava forman–
do l'uomo buono ed altruista, prendeva anche forma
la larva del poeta.
A proposito di quel periodo trascorso nella « Piccola
Casa» Cena racconta: « Facevo dei versi, ma i miei
erano sempre bocciati e lo meritavano
».
Il Rolando
ci riferisce un episodio: una volta, dovendo passare
« una notte di servizio come infermieri in una lunga
corsia di bambini, giacché in quella Casa del dolore
anche a noi studenti era chiesto il tributo di pietà e
sollievo dei sofferenti
»,
Cena scrisse per più di un'ora
«
una lunga filza di quartine...
»:
in quella notte erano
nati i versi di
« N
eli'ospedale » che troveremo poi,
riveduti, in
In
Umbra.
« Sospiri ancora verso quelle nevi
sacre? Contendi ai liberi orizzonti?
Lungi le aurore sono ed i tramonti...
Or quest'uman dolore , anima, bevi
».
Chiuso fra le dolenti mura a respirare
«
questo profu–
mo di carne morente
/
ch'erra nell'aria come un acre
incenso» (e senti che quell'« acre» ti prende alla