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(li serenità. L’orizzonte per dolcezza asso­

miglia a quello della nostra Toscana. Le ca-

panne degli indigeni che incontriamo lungo

le rive sono come quelle della più remota

antichità: palafitte, incroci di tronchi d’albero

e impagliate scurite dalle intemperie e dal

tempo. Canoe d’indigeni sostano ai margini

con piccoli carichi di merce. I primitivi rema*

tori, con movimenti lenti e leggeri, procedono

senza sorprendersi del nostro passaggio.

• * •

Siamo approdati in un paesello formato di

povere capanne, chiamato San Filippo. (Gi­

gantesche canne di bambù, così spettacolose

da ostruire l’orizzonte; e su di una specie di

contrafforte, alberi tropicali intricati da una

infinità di liane che tutto avvolgono, irreti­

scono, serrano, un vero subbuglio vegetale di

verdi e di gialli, un mistero di tronchi e di

rami e di foglie. Indimenticabile).

Ci sono venuti incontro gli abitanti del

luogo. Una mescolanza di razze da sbalordire:

dal negroide africano all’indios aborigeno, dal

tipo cinese all’amarindo, dallo spagnuolo al

meticcio.

A un tratto appaiono due deliziosi bimbi

bianchi, e apprendiamo la storia di uno strano

matrimonio avvenuto tanti anni fa tra un

boscaiolo nordamericano e una meticcia, figlia

di un Italiano e di un, amerinda. Caprìcci

delle generazioni: questi bimbi sono di nna

bellezza rara. In mezzo ai terribili ceffi dei

uegroidi e dei meticci, tutti smorfie e sber­

leffi caricaturali, con prognatismi paurosi, l’ap­

parizione delle due creature ci fa pensare a

una fiaba vissuta in un baleno complicata da

bizzarre cinematografie moderne, amerìcanis-

!>ime.

» • •

La

visita che

più

doveva rimanermi im­

pressa

è stata

quella al sergente di San

Fi­

lippo.

Era mai possibile allontanarsi da questo

paesello senza prendere contatto con l’unico

rappresentante del potere costituito? Per ve­

derlo siamo stati costretti a cercaria nella sua

«limora — una barracchetta di legno — e lo

i

U

m m

trovato lunga disteso svia paglia.

La nostra presenza lo ha subito richiamato

alla realtà della sua delicata missione. Dai

suoi ripetuti quanto vani tentativi per rial­

zarsi, abbiamo capito che in lui, l’uomo dal­

l’alcole festivo lottava col funzionario che do­

veva tenere alto il prestigio del potere.

Ora che dopo tanti sforzi era riuscito a se­

dersi, così a torso ignudo e tutto muscoloso,

appariva come un gladiatore dopo un duro

cimento. Il disgraziato faceva leva di tanto

in tanto con una mano sul suolo per rizzarsi

definitivamente, ma i piedi gli scivolavano

ogni volta sulla paglia facendolo ricadere a

terra. Àll’improwiso si rovesciò e carpon car­

poni si diresse verso un cantuccio della ba­

racca per cercare la sua giubba, e non sentì

ragioni — pressato com’era, dagli sguardi smar­

riti dei famigliali, a fare gli onori di casa —

finché non ebbe infilata la giubba che per lui

evidentemente costituiva il solo segno del­

l’autorità.

Quando fu in piev.. v. tentò di venirci in­

contro barcollante, si toccò le spalline e i

gradi applicati sulla manica destra. Subito

dopo, battendo i piedi, come per imporsi

definitivamente la posizione eretta, si carezzò

i baffi, che aveva alla Guglielmo, e aggrot­

tando le sopracciglia quasi gridò in pessimo

spagnuolo:

A disposiciòn de usted.

Ma fu un irrigidimento troppo energico che

egli doveva subito scontare. Difatti barcollò

due o tre volte tentando l’equilibrio con sva­

riati movimenti delle braccia e delle mani e

alla fine stramazzò sulla paglia da cui s’era

faticosamente levato.

Allora i suoi sudditi persero ogni rispetto,

lo lasciarono al suo destino, e vennero in

massa ad accompagnarci al piccolo imbar­

cadero.

Ci pareva d’essere diventati le vere auto­

rità di San Filippo, a vederci salutati con

tanto riguardo. Tutto il prestigio perduto dal

povero sergente si trasferiva in noi, e difatti,

salutando con gesti cordiali

quella povera

gente,

riuscimmo a

trattenere

la voglia natta

di ridere che

et

aveva pieao allo

snettoeolo