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zioni di vita, i più facili scambi, consentivano

ormai frequenti contatti fra le diverse regioni

italiane. I rapporti culturali ne beneficiavano

largamente, esercitando un’influenza somma anche

sull’architettura. Da tempo del resto, con il ritro­

vamento dei codici vitruviani, con il rinnovato

fervore degli studi, con i trattati e le ricerche

deH’Alberti, del Serlio, del Palladio, dello Sca-

mozzi, del Vignola, del Di Giorgio e di tanti altri

fino al Cattaneo ed al Rusconi, con gli studi sul­

l’architettura romana del Sammicheli e del San-

gallo in Italia, con le ricerche del Delorme, del

Mansart, del Fréart de Chamboy, del Lescaut,

del Blondel e di altri minori di Francia, per non

citare che gli studiosi la cui influenza in Piemonte

appare, per ragioni geografiche e politiche, mag­

giormente sentita, lo studio degli edifìci classici

era stato affrontato e completato. I principali

trattati di architettura erano già a disposizione

degli studiosi e gli stessi Guarini e Vittone, che

lavorarono sopratutto in Piemonte, ne scrissero

a loro volta, anche se in pratica abbandonarono

la rigidità dei canoni classici.

Tuttavia più che con i trattati, l'influenza delle

opere degli architetti barocchi che lavoravano in

Roma si fa sentire nelle fabbriche piemontesi e

potremo dire che queste ne derivano in gran

parte, come già le opere barocche in Roma deri­

varono dal rinascimento attraverso la ricerca

di nuovi effetti e di nuove forme.

Non è qui il caso di pensare a forme spontanee

sorte in Piemonte ed analoghe a quelle apparse

in altre regioni, per effetto di studi che portarono,

in dipendenza di fattori determinanti del tutto

simili, a somiglianza di risultati. Così era avvenuto

frequentemente in passato, quando l’arte del

costruire si concretava in espressioni semplici

e primitive; ne fanno fede ad esempio le coperture

a volta dell’architettura romanica, come pure le

frequenti analogie che si riscontrano in diversi

periodi architettonici in talune conformazioni pia­

nimetriche, come quella a pianta quadrata absi-

data od a croce greca con cupola centrale.

Questo concetto non è certo applicabile all’archi­

tettura delle chiese barocche del Piemonte, le cui

forme pianimetriche sono una decisa derivazione

di soluzioni già apparse in altre regioni italiane

ed a Roma in particolare. Ciò non toglie tuttavia

interesse a questi edifìci, sia per lo sviluppo che

le idee originali sorte altrove hanno trovato in

Piemonte, in virtù della personalità creatrice dei

singoli artefici, sia per il particolare adattamento

ai sistemi costruttivi ed ai materiali della regione.

L ’influenza degli studi e dell’opera dei grandi

architetti dell’epoca si fa del resto maggiormente

sentire in Piemonte per effetto della permanenza

a Roma, talvolta in veri e propri avventiziati, di

molti dei suoi artisti più rappresentativi. Vittozzi,

Carlo di Castellamonte, Guarini, Juvarra, Vittone,

Alfieri ed altri minori, ebbero infitti non soltanto

la ventura di soggiornare aRoma all'inizio o durante

la loro carriera e di vivere in quell’ambiente mira­

bile che vedeva sorgere, proprio in quei tempi, i

suoi monumenti più rappresentativi, ma di lavo­

rare con i più valenti architetti dell’epoca.

Può essere interessante, per maggiormente chia­

rire taluni aspetti dell’arte barocca in Piemonte,

ricordare la natura e l’entità dei rapporti che

quegli architetti ebbero con il mondo artistico

romano.

È certo che Ascanio Vittozzi (1539 -16 15), nato

ad Orvieto, ebbe molti contatti con l’arte romana

(secondo taluni anzi, fra cui il Promis, fu allievo

del Vignola), per quanto la sua vita movimentata

di ingegnere militare e di combattente gli abbia

per lunghi anni impedito ogni attività nel campo

architettonico.

Carlo di Castellamonte, di poco posteriore al

Vittozzi, suo allievo e successore come architetto

del Duca Carlo Emanuele I, visse durante un lungo

periodo a Roma, ove sembra fosse uno degli aiuti

di Domenico Fontana.

Guarino Guarini (1624-1683) visse a Roma nella

sua prima

.ìezza, negli anni in cui l’arte

barocca del Bernini e del Borromini si avviava a

raggiungere le sue più alte manifestazioni.

Filippo Juvarra (1676-1736) fu a Roma prima

che a Torino, e, ancor giovane, appartenne alla

accademia di S. Luca. Ritornò spesso a Roma ove

fu discepolo di Carlo Fontana.

Bernardo Vittone (i704?-i770) studiò a Roma,

fu vincitore di un concorso indetto dall'acca­

demia di S. Luca e successivamente fu membro

dell’Accademia stessa. Lavorò in Piemonte con

la completa visione della città immortale ormai

ricca di tutte le sue più rappresentative costruzioni.

Più tardi Benedetto Alfieri, nato e cresciuto a

Roma, portò a Torino la passione coltivata nella

sua prima giovinezza, in un ambiente che l’aveva

affascinato al punto da indurlo ad abbandonare

la professione legale cui era in un primo tempo

destinato.

Questi artisti, e non sono che i maggiori, hanno

tutti inevitabilmente assimilato nella loro arte,

in misura più o meno grande, l’insegnamento dei

sommi artefici di cui poterono ammirare e studiare

i monumenti. L ’influenza appare evidente nelle

loro opere, anche se l'interpretazione ha assunto

un diverso carattere, sia in relazione alla perso­

nalità dei singoli artisti, sia in relazione all’epoca

in cui vissero e lavorarono.

Taluni, e particolarmente il Vittozzi e lo Juvarra,

hanno saputo infondere ai loro monumenti l’equi­

librio e la potenza strutturale di una concezione

veramente romana. Non troviamo forse nelle loro

opere la tormentata ricerca di nuove originali

soluzioni che caratterizza la personalità di altri

artisti sopratutto nel periodo di

decadenza, ma un

perfetto equilibrio,

dote somma per un

Architetto,

unito all’assoluta

rifila mnrrrinn» spa­

ziale sorta con

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grandi edifici

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sopratutto nel Juvarra, la compieta assimilazione