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Borghi & borgate: introduzione al tema

Bruno Gambarotta

My Fair Lady

è un film di George Cukor del 1964, liberamente tratto da

Pigmalione

,

una commedia del 1914 di George Bernard Shaw. La prima scena del film è un notturno,

l’esterno di un teatro di Londra nel momento in cui gli spettatori sciamano fuori al termine

dello spettacolo: sorpresi da un acquazzone, si rifugiano sotto un portico. Qui, seduta per

terra, c’è Eliza Doolittle, una povera ragazza che prova a vendere mazzi di violette, usando

le espressioni tipiche dei bassifondi. In piedi accanto a lei, il professore di fonetica Henry

Higgins estrae un taccuino e inizia a prendere nota delle frasi di Eliza. La ragazza, scam-

biandolo per un poliziotto intento a compilare un verbale di contravvenzione, protesta la

sua innocenza e i signori presenti prendono le sue difese. Higgins, per dimostrare il suo

statuto di studioso, replica ai suoi interlocutori, indicando a ciascuno senza esitazione il

luogo di nascita, le scuole frequentate e il quartiere di Londra dove risiede, desumendolo

dalle sue intonazioni fonetiche. Dicono che, ancora alla fine dell’Ottocento, fosse possi-

bile desumere la provenienza di un torinese da una borgata della città dal suo modo di

declinare il piemontese. Qui non importa tanto che si tratti di un dato verificabile o di

una leggenda metropolitana, quanto che a me, sbarcato adolescente a Torino nel 1951

dalla provincia piemontese, venisse da più fonti raccontata, a dimostrazione del fatto che

nella coscienza collettiva i borghi erano ben presenti, anche come contrassegno sociale.

Gli iscritti a quella prima classe dell’Istituto Bodoni, l’unico a insegnare grafica e fotogra-

fia, provenivano da varie parti della città. Eccoli dunque, alla prima occasione, annusarsi

reciprocamente per tracciare confini e disegnare alleanze. Quanto a me, poiché parlavo il

piemontese nella variante astigiana e per quattro anni avrei fatto il pendolare con la mia

città natale, la classificazione fu immediata: ero e sarei stato il “pacu”, il provinciale. Per

qualche mio compagno sentivo parlare con una sfumatura di disprezzo di “barriera” ma

non osavo domandarne il significato per non ribadire ulteriormente la mia non torinesità.

Niente come l’esclusione stimola la voglia di saperne di più e da allora non ho mai smes-

so di documentarmi sulla mia città di elezione. Una limpida spiegazione del concetto di

“barriera” l’ho trovata in un lavoro collettivo dell’ecomuseo urbano della circoscrizione 9,

intitolato

Via Nizza 224, il profumo del vermuth

. Eccola: «La formazione dei borghi subur-

bani di Torino è in stretto rapporto, oltre che con gli insediamenti industriali periferici, con

l’istituzione, nel 1853, della cinta daziaria attorno alla città, con un tracciato corrispon-

dente agli attuali corsi Bramante, Lepanto, Pascoli, Ferrucci, Tassoni, Svizzera, Mortara,

Vigevano, Novara, Tortona. Si trattava di un muro di stile militare, con fossato all’esterno

(cinque metri dal fondo del fossato al sommo del muro) e torrette di guardia, atto a im-

pedire l’accesso al centro urbano, se non attraverso varchi prestabiliti in corrispondenza

delle strade radiali principali. La cinta costituiva un confine molto marcato, che segnava

profondamente il paesaggio e il rapporto con la città di chi abitava all’esterno, e che ha in

parte determinato la forma stessa della città nella sua espansione. Attorno a ogni varco

venne allestita una piazza, nella quale le guardie del Comune riscuotevano il dazio, tassa

di consumo su gran parte delle merci che entravano in città, destinate sia ai consumi pri-

vati sia alla produzione industriale (il dazio fu per lungo tempo la principale entrata del

bilancio comunale). Ciascuna piazza era dotata di uffici e caserme dei dazieri e di un peso

pubblico. I varchi della cinta, le corrispondenti piazze e i nuclei abitati che gradualmente si

svilupparono attorno alle piazze presero il nome di

barriere

».

Dopo la sua soppressione, avvenuta nel 1930, il fantasma del “dazio” ha aleggiato a

lungo nella coscienza collettiva dei torinesi e se ne trova traccia nei modi di dire. Nei primi