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del talento tutto intellettivo e costruttivo, tutto orga–

nizzazione e metodo»

(4).

Ma certo ci renderemo ben

conto

-

e nessuno ha fatto tanto e così bene quanto

D'AmiC(~

per dimostrarlo

-

che questo è semplice–

mente un cliché. Un cliché cioè una maschera, uno

di quegli «elementi di travisamento» ai quali, se–

condo il parere d'uno scrittore che per tanti aspetti

fu vicino all'esperienza artistica di Casella

(5),

l'artista

ricorre per una specie di pudore. «Mormora in lui

una incertezza, sensazione acuta dell'incomprensione

cui ogni rivelatore espone se stesso e la sua cosa più

cara. Vorrebbe che qualcuno con un poco di sforzo

gli venisse ilicontro: a questo sforzo, a questo buon

volere, egli. potrà riconoscere i suoi,- distinguere co–

loro cui continuerà a parlare volentieri, dagli altri

di cui non gli importa e non gli importerà mai

».

Allora

«

si camuffa

»,

per un istinto di difesa, ed ecco

« la maschera della sentimentalità inconsolabile» di

Chopin, ecco la maschera della «tenerezza malinco–

nica» di Mozart, ecco la maschera della grazia ga·

lante di Domenico Scarlatti o del titanismo eroico di

Beethoven. «I contemporanei hanno spesso decre–

tato successi equivoci, cioè hanno applaudito la ma–

schera, non il volto che c'era sotto

».

In realtà, non è che la maschera sia qualcosa di asso–

lutamente falso, da confutare in blocco. Diventa falso

solo quando ci si dimentica del volto che può esserci

sotto. Nel caso di Casella, la maschera protettiva è

appunto quella dell'ordine: il mito del buon artigiano,

scrupoloso ed esatto. Sarebbe assurdo contestare l'im–

portanza di questo aspetto nell'arte di Casella. Ma

sbaglierebbe chi credesse che l'arte di Casella vi si

esaurisca. Quel periodo di oscuramento pessimistico

che ha prodotto lavori come

Notte di maggio (1913),

i

Nove pezzi

per pianoforte

(1914), L'adieu

à

la

vie

per canto e pianoforte

(J

915),

la

Elegia eroica

per

grande orchestra

(1916)

e il Poema musicale per pia–

noforte (poi per pianoforte e orchestra)

A notte alta

(1917

e

1921),

non Ju solo una parentesi passeg–

gera da cui l'artista sia poi approdato al porto d'una

inconturbata serenità, legata al trionfo della tonalità

e del do maggiore

(6).

Casella poteva anche crederlo,

dopo che la scoperta del paesaggio toscano gli

«

fece

capire tante cose» e gli apprese definitivamente

«

che

l'italiano non poteva in nessun caso essere impres-

sionista e che la chiarezza trasparente di quel pae–

saggio era quella stessa dell'arte nostra»

(1).

Sentimenta lità inconsolabi le

Ma la crisi di pessimismo quale si esplica per

esempio nel poema

A notte alta,

che Casella di–

chiara «ispirato da circostanze sentimentali che at–

traversava allora la

sua

vita

»,

non era tale, cioè non

era una crisi momentanea, bensì l'insorgere di qual–

cosa di profondo, invano ricacciato nell'oscurità del–

l'inconscio, ma destinato ad affiorare ancora in mezzo

alle placide acque del neoclassicismo e della con–

quistata serenità. Il gruppo di composizioni del

1913-18

è come il più vasto rilievo montuoso d'una

serie discontinua di scogli che, quasi aspro cordone

di rocce subacquee, emergono saltuariamente dal

tranquillo mare della sua produzione normale (quella

dell'oggettivismo neoclassico, solare, latino e medi–

terraneo) e ne interrompono la sorridente serenità

con improvvise isole di sentimento tragico. La con–

tinuazione di questo allungato arcipelago si manife–

sta qua e là in piccoli lavori o in parti di lavori mag–

giori, come il lamento di Miranda all'inizio del terzo

atto de

La

Donna serpente (1931),

il primo dei

Due

Ricercari sul nome Bach

per pianoforte

(1932),

il

«largo solenne» della

Sinfonia

per pianoforte clari-

(') Ne dava notizia, con «gioia quasi infantile », a G. Fran·

cesco Malipiero, il quale c'informa di questa sua «lungimi–

rante dodecafonizzazione» ne

Il

filo d'Arianna

(Ed. Einaudi,

Torino, 1966), pago 161. Si ponga mente, però, che nella '

lettera di Casella ivi citata, dell'agosto 1913, va letto: «ho

potuto arrivare a combinare» (e non già: continuare) « le do–

dici note cromatiche ». Si confronti, infatti, la riproduzione

della medesima lettera in fac-simile nel N. 1 della rivista

«L'Approdo Musicale» (Edizioni Rai Radiotelevisione Ita–

liana, gennaio-marzo 1958). pago 23. '

(2)

A. Casella,

I

segreti della Giara.

Ed. Sansoni, ·Firenze, 1941.

(3)

Fr. Niç.tzsche,

Briefe an Peter Gast.

Insel-Verlag, Leipzig

1924, pago 313.

(4)

F. D'Amico,

L'insegnante e il maestro.

In:

Alfredo Ca-

Alfredo Casella nel 1945:

La

Missa solemnis pro pace

conclude la sua attività di compositore

ma non spegne il desiderio insaziabile di far musica,

anche se

i

ritorni ad essa si configurano

come altrettanti segreti commiati

netto tromba e violoncello

(1932).

Ma alla fine della

sua esistenza i

Tre canti sacri

per baritono e organo

(1943) e la imponente

Missa solemnis Pro pace

(1944) ne chiarirono pienamente il significato di

libera religiosità e di coraggiosa contemplazione della

morte. In quegli anni l'aveva già attanagliato il male

crudele che doveva condurlo alla tomba, senza riu–

scire a stroncare il suo programmatico ottimismo,

assurto in quella circostanza a dignità di altissimo in–

segnamento morale.

L'Allegro e il Pensieroso, la Tarantella e il Notturno,

il

sole e la notte alta, il do maggiore e la tentazione

atonale, la Siciliana e Torino. Tutte queste antinomie

stanno nell'arte e nella personalità di Casella come

il diritto e il rovescio d'un medesimo tessuto, e sono,

a ben guardare, le realtà interiori corrispondenti a

quei due elementi stilistici sui quali si fonda il

valore storico della sua presenza nella musica italiana:

il recupero del passato nazionale pre-romantico, da

Monteverdi a Vivaldi, a Scarlatti, a Rossini, e l'ag–

giornamento costante sulle esperienze contemporanee

dell'arte europea, da Debussy a Strawinsky, da Mahler

a Schoenberg, da Ravel a Weber.

E

qualunque cosa

egli abbia potuto dire o scrivere, indulgendo ai

luoghi comuni di marca nazionalistica sulla chiarezza

solare del genio latino, sulla luminosità mediterranea

e via dicendo, nessuno sapeva meglio di lui, per aspro

travaglio d'esperienza interiore, che un aspetto della

realtà non si scompagna mai dal suo opposto, e che

le ombre si stagliano tanto più crude là dove il sole

è più luminoso. Le tarantelle della

Serenata

e i

«

cre–

scendi» rossiniani della

Giara

affondano le loro

radici in un terreno carsico, ròso da buche spaven–

tOSt, dove albergano nidi di vipere. Dalla consa–

pevolezza degli orrori padroneggiati trae la sua va–

lidità l'ordinata serenità di Casella. Sono le taran–

telle d'un subalpino, d'un torinese che adorava

«

quel–

la terra napoletana tutta sole eppur così misteriosa,

così tragica nella sua anima»

C).

Massimo Mila

sella,

a cura di Fedele D'Amico e Guido M. Gatti. Milano,

Riccrdi, 1958, pago 167.

(5)

M. Bontempelli,

Sette discorsi.

Ed. Bompiani, Milano 1943,

pago 203 e segg.

(6)

« Vi fu un periodo durante

il

quale tendeva a farsi

strada nella mia coscienza la convinzione che la dodecafonia

fosse lo scopo supremo della evoluzione moderna. Questo

periodo di dubbi e di esperimenti vari durò dal 1914 sino

al 1918. Ma con quest'ultimo anno, il senso tonale aveva defi–

nitivamente vinto in me ogni esitazione e la dodecafonia non

rimaneva per me che un soggetto di viva ammirazione ma un

principio musicale per sempre estraneo alla mia arte di com–

positore» (A. CASELLA,

I

segreti della Giara.

Ed. Sansoni,

Firenze 1941, pago 145).

(1)

A. Casella,

op. cit.,

pago 211.

(8)

A. Casella,

op. cit.,

pago 184.

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