

Una scena de
Le Farse
di A/ione
con gli interpreti (da sinistra) Franco Alpestre,
Elena Magoja, Anna Bonasso,
Gigi Angelillo e Franco Vaccaro.
In alto: il frontespizio
dell'«
Opera Jocunda»
di
G.
C.
Alione,
stampata ad Asti nel 1521
sa le canzoni, tira fuori la chitarra, forza, cantiamo.
E via con la storia della
Dona lombarda
che vuoI far
veneficio al marito per godersi l'amante, ma lo sposo
è furbo e finisce che tocca proprio 9lla malcapitata di
bere la pozione e impallidire, non stare più in piedi,
morire con una filastrocca interminabile e spassosa.
Accanto a questa, tutte le altre canzoni popolari e
anonime dove tristezza e ironia e sentimento, mani–
festazioni di un'esistenza molto vicina alla natura ed
atto di protesta - con i consueti bersagli del prete
godereccio e del questurino crudele - dimostrano la
presenza di poeti che nel dialetto hanno trovato la loro
forma d'espressione inevitabile, una misura che esclude
il pericolo del facile colore locale.
Ci
sono anche gli
eruditi come Edoardo Calvo e il suo scherzoso
Platon
e i pito,
come l'illuminista padre Ignazio Isler che
compose un grottesco
Pais 'd cucagna.
C'è, infine,
Brofferio con la
Carafina,
il
Ritorn
(alle galere subal–
pine) e
l'At 'd fede,
motivi in cui la velina umori–
stica copre appena una costante e indignata grinta
polemica.
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Proprio con Brofferio è continuata l'anno scorso (con
una ripresa all'inizio della stagione in corso) la ripro–
posta teatrale degli umori della nostra terra, con una
antologia composta da Franco Antonicelli,
La brofJe–
riana,
a cento anni dalla morte di quell'avvocato, de–
putato al parlamento, drammaturgo e poeta, che ci
teneva ad essere, in primo luogo, un «torototela
»,
una testa canterina. E non a torto, poiché in quei
versi che ancora si ricordano e si cantano si ritrova
un grande piacere del vivere schietto ed allegro, un
cuore generoso ed una filosofia semplice, ma non dav–
vero semplicistica. Brofferio era capace di intonare
sulle più acute risorse del dialetto, su un linguaggio
pittoresco e colorato, le vibrazioni più sottili del sen–
timento, in maniera distaccata e disincantata, ricca di
umori e ironie, di spirito pungente sotto l'apparenza
bonaria. E queste qualità sono anche pregio delle
composizioni sociali in cui si riflette il politico che
non ammetteva compromessi, l'irriducibile avversario
di Cavour, aprendo prospettive poco frequentate nella
nostra storia risorgimentale. Democratico, progressista
e repubblicano, il poeta fu due volte incarcerato e
proprio tra le sbarre maturò la sua vocazione di bat–
tagliero
chansonnier,
di cattiva coscienza per una
società in difficile e spesso insoddisfacente trasfor–
mazione.
Dagli anni della prigione muove, appunto, l'immagi–
naria autobiografia che Antonicelli ha scritto per le–
gare fra loro una ventina delle canzoni più significative
(quelle già citate nel
Canzoniere
e altre, fra cui
l'ironico
Spirit folet,
le spinose
Cavour e 'l colera
e
L'abolision d'i convent).
È
un monologo assai attento
a seminare punte sotto la cordialità, a porre domande
imbarazzanti e subito dopo a scusarsene, volgendo
magari tutto in risata, come amava fare l'autore che
sdrammatizzava con il buonumore le frustate più fe–
roci sulla pelle di affaristi, burocrati e vigliacconi. E
con la stessa risata sapeva rendere arguti gli idilli sen–
timentali. Canzoni e autobiografia valgono, insomma,
a delineare un itinerario morale ed umano ancora ben
vivo e suggestivo, prestandosi ad improvvisare un de–
sueto e godibile « cabaret» di cento anni fa, capace,
però, di toccare ancora diverse corde dell'oggi. Lo
spettacolo del Teatro delle
lO
ha il piglio di una sti–
lizzata rappresentazione da camera; gli attori in calza-
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