

Il conte Gianfrancesco Galeani Napione,
in una biografia del Palladio pubblicata a
Milano nel 1836, scriveva invece: «Ema
nuele Filiberto fu il solo principe contem
poraneo che del valore del Palladio giusto
e perciò alto concetto formasse e prima del
l'anno 1560 in Piemonte il chiamò per il
ducal palazzo ».
Lo stesso Napione — riferisce un eru
dito di cose subalpine — al Palladio attri
buiva, oltre il Parco, il disegno del primi
tivo castello del Valentino e suppose anzi
«che quanto v’ha di buono nella pianta di
esso, possa esser un resto dell’antica villa >•
dall’insigne architetto vicentino tracciata.
A toglier di mezzo ogni incertezza, do
vrebbe valere, ci sembra, la eloquente di
chiarazione contenuta nella dedica da An
drea Palladio apposta ai due libri dell’ar
chitettura (prima edizione : Venezia, 1570),
opera offerta appunto al vincitore di San
Quintino, rivolgendosi al quale egli scri
veva : « all’hora che da lei fui chiamato in
Piemonte... ».
Gli è che di questo artista veneto nulla,
a Torino, è rimasto in piedi. U Valentino
fu fatto ricostruire completamente dalla du
chessa Cristina; del Parco s’è detta la fine
malinconica; demolito fu il Palazzo Duca
le, o Reale detto il «Vecchio», nel quale
si trovava ancora sulla seconda metà del
secolo XVIII" (cfr. Derossi Onorato : Gui
da del 1780) « una rotonda d’ordine jonico
con colonne di marmo di diversi colori, che
servì di cappella all’occasione in cui tra
sportarono da Chambèry la SS. Sindone »,
rotonda che da alcuni si riteneva appunto
eretta « secondo i disegni del Palladio».
1 Temanza, architetto della repubblica
Veneta, nella «Vita » del Palladio, dopo
avere scritto che questi in Piemonte « fu cer
tamente per qualche regio edifizio» osser
va : «<Quale si fosse non l’ha scrìtto. Rile
va* che il parco antico nella maggior parte
rovinato è una delle opere del nostro Pal
ladio ». Ed era giunto alla constatazione
sulla scorta di una «diligente pianta » spi
rante « in ogni sua parte sapor palladiano »
fornitagli dal reale ingegnere Monti.
Il Parco sabaudo fu un luogo di delizie
da rivaleggiare coi più fantasiosi del tem
po. Forse li superò. Alata, efficace testimo
nianza porge il Tasso con la descrizione del
giardino d’Armida nella sua «Gerusalem
me liberata ».
In lieto aspetto il bel giardin a'aperte :
Acque stagnanti, mobili cristalli,
Fior oari e varie piante, erbe diverse.
Apriche collinette, ombrose valli.
Serve e spelonche in una vista offerse;
E quel che ‘l bello e ’l caro accresce a l’opre,
L’arte che tutto fa, nulla si scopre.
E nell’ottava seguente:
Stimi (ai misto il culto è co ’l negletto)
Sol naturali e gli ornamenti e i siti.
Di natura arte par, che per diletto
L’imitatrice sua scherzando imiti.
Un giardino all’inglese, dunque, o per
esser più esatti, all’italiana, chè dalla no
stra penisola l ’idea dei giardini irregolari
fu attinta e passò negli altri Stati d’Europa
« un di que’ giardini » scrisse il Cibrario
«che più tardi si chiamarono inglesi e sono
italiani d'orìgine, di trovato e d’esecuzio
ne ». Non è 1’unica iniziativa nostra, del re
sto, che in passato, per accreditarsi, aveva
bisogno di varcar le Alpi e di ritornarci con
etichetta straniera.
Che il Tasso si proponesse di ritrarre tal
quale il Parco torinese, ce lo dice lui stes
so in una lettera probabilmente del 1580,
indirizzata all’abbate Giovanni Botero, let
terato, storico e statista in onore alla corte
di Carlo Emanuele lu.
«Affinchè il signor Duca di Savoia di
V.S. et mio signore sappia quanto grato io