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Se esaminiamo la bibliografìa premessa al

Dizionario moderno

di Panzini troviamo, ac­

canto a libri classici come il

Romanisches

etymologisches Wòrterbuch

di W. Meyer Liibke

e r

Etymologisches Wòrterbuch der deutschen

Sprache

di F. Kluge, opere prive di valore

scientifico come il

Vocabolario etimologico ita­

liano

del Pianigiani, o antiquate e superatis­

sime; alcune anzi non furono mai veramente

attuali come

L'elemento germanico nella lingua

italiana

di E. Zaccaria: e tutto in una biblio­

grafia ristretta a soli ventidue numeri.

Non bisogna meravigliarsi. Panzini, se anche

non abbandonò mai completamente, in certo

suo tono fra il patetico e il didascalico, l'abito

di professore, fu e rimase soprattutto uno

scrittore, un artista, un creatore: la sua dot­

trina linguistica scopre perciò subito i suoi

limiti. Nel

Dizionario moderno

si possono no­

tare a decine, a centinaia, inesattezze di defi­

nizioni e omissioni di dati propriamente scien­

tifici e da lamentare è soprattutto la man­

canza di una sicura cronologia delle voci.

Eppure, nonostante questi difetti che, dal

punto di vista della storia della lingua, sono

gravi, e prescindendo dal valore letterario, da

quei « panzinismi ><arguti, pieni di punte di

spillo, di critica or benevola or maligna che

fanno dell'opera il più singolare di tutti i

vocabolari, il

Dizionario moderno

è riuscito a

conquistarsi un posto accanto ai vocabolari

classici italiani ed è tenuto vicino al Manuzzi.

al Tommaseo, al Petrocchi, alla Crusca.

Una delle principali ragioni della fortuna

e della considerazione di cui gode è che il suo

autore comprese una cosa che ben pochi

scrittori (e direi perfino pochi linguisti) hanno

sentito e sentono: la necessità di tenere ben

aperti gli occhi ai fatti linguistici contempo­

ranei senza disdegnarli in blocco anche se le

formazioni moderne e le nuove creazioni non

sono tutte belle e felici. Il Panzini, pur con

le sue antipatie (non ammetteva, per esempio,

le voci formate col suffisso

-istico

e non s av­

vide di esser incorso anch'egli nell'errore

usando

secentistico

e

settecentistico)

aveva del

linguista militante l’interesse sveglio e la viva

curiosità.

Il

bisogno di registrare, di documentare

lentamente, pazientemente (con quella pa­

zienza che sembra soio privilegio o difetto dei

dotti) era vivissimo in lui: l’ aver compreso

quale valore avrebbe avuto la sua raccolta

nella valutazione del lessico italiano rispetto al

lessico europeo è un suo grande, indiscutibile

merito. E questo soprattutto in Italia dove

le tendenze dei vecchi puristi, ciechi di fronte

alla vita che correva e alle necessità storiche

dei tempi, impedirono non solo di accogliere

nei dizionari delle voci che tutti usavano, ma

anche certamente ritardarono il momento

della nascita di quel buon vocabolario storico

e insieme normativo che non manca ormai a

nessuna lingua europea di qualche importanza

se non all’ italiana. La spregiudicatezza del

Panzini nell’accogliere perfino nei suoi scritti

d’arte voci popolari, neologismi, parole stra­

niere, parve talora eccessiva: alcuni forse non

sanno darsene ancora pace. Questa sua libertà

ed indipendenza di fronte al vocabolario parve

contrastare con le solenni proteste di purismo

che si trovano nel

Dizionario moderno

e al­

trove. La contraddizione non è che apparente.

Panzini prese apertamente in giro gli sten­

terelli della lingua italiana che non sapevano

dire una sola frase se non l’arabescavano di

voci straniere, ma di fronte alle parole europee

entrate nell’uso con un valore ormai insosti­

tuibile. pur talora brontolando, non si scan­

dalizzò, non gridò al tradimento, non levò il

compianto sulla imminente fine della lingua

italiana. Egli ebbe una fede viva nei destini

della nostra lingua che volle pura, sobria e

forte ma moderna, sostenuta nel suo perenne

evolversi dall’ inesauribile fonte del latino, ri­

vestita di grazia ma anche aperta, come le

lingue imperiali, a tutti gl’ influssi. E soprat­

tutto seppe distinguere seppure inconscia­

mente e cioè senza fondamento scientifico ma

solo per istinto, tra la lingua come mezzo di

comunicazione e quindi fatto sociale e lingua

d’ arte, di creazione. Lo spinoso problema della

sostituzione dei termini stranieri lo trovò in

una posizione che anche un linguista di pro­

fessione non potrebbe trovare più giusta: eli­

minazione di tutte le voci straniere inutili che

hanno un perfetto corrispondente in italiano,

tentativo di tradurre o di sostituire quelle non

ancora profondamente radicate designanti cose

anche nostre, immissione nel nostro lessico

delle voci giunte con le cose dall’estero e ormai

entrate stabilmente nell’uso. Nel proporre so­

stituzioni non fu mai assoluto. Talora, prò*

ponendo, scrive: « Si dovrebbe dire cosi in

italiano, ma chi lo dice? », ammettendo impli­

citamente che l’uso vale più dei pareri dei

dotti e conscio che spesso neppure la bellezza

e la grazia riescono a far accettare dalla lingua

comune una paiola quando un’ altra, sia pure

brutta e sgranata, si è ormai diffusa e affer­

mata. £ il caso di

raion

che il Pannai propose

di sostituire con la bella voce

radiosa.