

- non importa se per ora con strutture non ben de–
finite - la configurazione nuova del dipartimento: e
il dipartimento esige concentrazione topografica, in–
tercambi molteplici, possibilità aperte ai raccordi di
ogni tipo che le nuove esperienze proporranno all'Uni–
versità di domani.
Anche a questo riguardo, certe istanze politiche sem–
brano astratte e fuorvianti. Si dice da taluno che la
grande Città universitaria concentrata ·e periferica, il
campus
di tipo aglosassone, annidato nel verde, attua
una specie di paradiso terrestre per i pochi privile–
giati, risponde al modello di un'Università aristocra–
tica o addirittura classista, contrasta con la cultura
di massa. lo non vedo quale incompatibilità possa
sussistere fra il sacrosanto principio della cultura
superiore aperta a tutti i meritevoli e l'istanza di
creare un ambiente naturale e una serie di installa–
zioni razionali capaci di assicurare a chi studia le
condizioni più favorevoli, cioè installazioni efficienti
e raccoglimento silenzioso. Non sono architetto e non
voglio discutere se
il
modello ideale ha da essere
il
campus
con grandi alberi e magari collegi in stile
gotico fiammeggiante, oppure una gigantesca Casa di
Salomone di baconiana memoria, o un grattacielo sta–
liniano, o un qualunque altro tipo urbanistico e
strutturale di insediamento : certo è però che la ritro–
vata unità del sapere sempre più esigerà istituzioni
coordinate e che solo una soluzione unitaria sarà in
grado di assicurarle.
Due città degli studi
Accettato questo principio, il primo corollario è che
una sistemazione di questo tipo non potrà in nessun
caso attuarsi nel centro storico della città o nei
quartieri immediatamente adiacenti:
il
fabbisogno di
terreno per la futura Città universitaria viene oggi
stimato tra un minimo di tre e un massimo di sei
milioni di metri quadrati, cioè da tre a sei chilometri
quadrati: venti volte l'area della Torino del Rinasci–
mento e quattro volte quella della Torino del primo
Ottocento. Di qui
il
preciso orientamento, che ormai
si delinea, verso l'acquisizione di terreni omogenei
e salubri nella immediata « cintura », curando che il
parziale acquisto e ulteriori opzioni garantite assicu–
rino per intero l'area richiesta dalla sistemazione inte–
grale: anche se per decenni qualche ettaro dovesse
restare coperto di boschi, sarebbe tanto di guadagnato
per i nostri polmoni.
Questo orientamento, imposto da condizioni esterne
insuperabili, esige ovviamente uno stretto coordina–
mento dell'iniziativa edilizia universitaria con gli Enti
che amministrano il territorio interessato: l'Universi–
tà dislocata nella « cintura» torinese esigerà a breve
scadenza un raccordo autostradale diretto e un mezzo
pubblico di trasporto rapido - possibilmente una
linea metropolitana a cielo aperto con blocco auto–
matico e alta frequenza di corse - , che si raccordi
alle stazioni ferroviarie per facilitare l'afflusso degli
studenti non residenti a Torino.
Questa soluzione - inizialmente ardua, impopolare,
coraggiosa -
è
già stata accettata, con altissimo
senso di responsabilità civile e scientifica, da quattro
Facoltà del nostro Ateneo, quelle che si trovano in
condizioni di maggiore disagio e per le quali una
decisione si impone con carattere di estrema urgen–
za. Si tratta delle Facoltà di Scienze matematiche,
fisiche, e naturali, di Agraria, di Veterinaria e di
Farmacia. Esse avranno l'onore e l'onere di compiere
la fatica dei pionieri, di inaugurare con sacrificio con–
sapevole l'Università torinese del Duemila.
Estranea alla discussione, arroccata nei suoi impianti
ormai giganteschi lungo l'asse meridionale della Città,
resta per ora la Facoltà di Medicina.
È
palese che
essa non può dilungarsi dalle grandi istituzioni ospe–
daliere, dalle moderne e recentissime cliniche, da
tutto un complesso di installazioni, che sembra, allo
stato attuale delle cose, inamovibile. Ulteriori dispo–
nibilità di terreno nella zona di «Italia '61 » e lo
sgombero degli Istituti del Valentino da parte della
Facoltà di Scienze sembrano inoltre garantire alla
Medicina un certo margine di espansione.
Restano le Facoltà umanistiche, quattro per ora -
cioè Legge, Lettere, Magistero e Scienze economi–
che -, cinque nel prossimo futuro, quando anche la
Facoltà di Scienze politiche verrà a colmare l'unica
lacuna dell'Ateneo torinese. Per queste Facoltà, in
anni relativamente recenti, è stato progettato e posto
in costruzione il nuovo palazzo di corso S. Maurizio,
la cui inaugurazione dovrebbe aver luogo entro il
corrente anno. Non è il caso di discutere qui l'oppor–
tunità della scelta a suo tempo operata (lungo un
gremito asse di scorrimento, che avrebbe dovuto sfo–
ciare in un ponte sul Po), nè di contestare la man–
canza - a quel tempo - di una programmazione uni–
taria. Sta di fatto che una delle quattro Facoltà, la
più numerosa (Scienze economiche) , ha dovuto rinun–
ciare da tempo a trovar posto nel nuovo edificio e
che fin d'ora le biblioteche e gli istituti delle altre
tre Facoltà previste si disputano spazi tutt 'altro che
sovrabbondanti. Resta dunque da trovare una urgen–
tissima soluzione per la Facoltà di Scienze economi–
che, da predisporre la sede per la Facoltà di Scienze
politiche, da prevedere a scadenze forse non imme–
diate, ma certo tutt'altro che remote, l'insufficienza
del nuovo palazzo delle Facoltà umanistiche.
Qui si incentra il più grave e controverso problema
dell'edilizia universitaria torinese. Da un lato, qual–
siasi nuovo insediamento nel centro storico aumenta i
già vistosi investimenti, consolida soluzioni discusse
e non definitive, protrae alle calende l'auspicata uni-
flcazione di tutte le Facoltà nell'organica Città degli
Studi. D'altro canto, si obbietta autorevolmente, le
Facoltà umanistiche mal si possono separare dal cen–
tro storico, dove i Musei, l'Archivio di Stato, la Bi–
blioteca Nazionale, l'Accademia delle Scienze e tanti
altri istituti culturali forniscono mezzi di lavoro inso–
stituibili. Debbo dire che l'osservazione, esaminata
realisticamente, perde gran parte del suo peso: l'Ar–
chivio di Stato è allogato esso stesso in locali vetusti
e pericolanti e nulla vieterebbe di erigere la sua nuo–
va sede presso la Città universitaria; i Musei, se
intesi come luogo di studio e di ricerca specializzata,
interessano poche unità della popolazione studentesca,
la Biblioteca Nazionale è sempre più inadeguata ai
suoi troppo ambiziosi compiti ed è tempo che le sue
funzioni siano in larga parte assunte da una grande
Biblioteca universitaria centralizzata, che incorpori e
coordini decine e decine di Istituti, pur garantendone
la piena autonomia scientifica e didattica.
L'altra obbiezione, anch'essa molto seria e meditata,
è quella che richiama le esigenze degli studenti lavo–
ratori - particolarmente sentite nella Facoltà di
Scienze economiche - i quali spesso accorrono alle
lezioni nei ritagli di tempo disponibili e sarebbero
scoraggiati da percorrenze di parecchi chilometri in
zona periferica di non facile accesso. Qui si tratta di
valutare con analisi obbiettiva se non sia più celere
e, in sostanza, meno oneroso, un lungo percorso su
assi attrezzati veloci e sgombri, anzichè un più breve
percorso nel centro urbano intasato e caotico.
Ma sopratutto si tratta di affrontare la responsabilità
di una scelta difficile, che condizionerà duramente
ogni sviluppo futuro: o si accetta
il
principio - che
io ostinatamente respingo - di una definitiva sepa–
razione fra scienze della natura e scienze umane, e
conseguentemente si costruiscono due Città degli
Studi, una periferica e una centrale, assicurando però
anche a quest'ultima spazi adeguati a ogni possibile
sviluppo; oppure si affronta con coraggio risoluto,
con alto spirito di sacrificio,
il
problema dell'unità,
della concentrazione, del coordinamento integrale, sen–
za ulteriori dispersioni o compromessi dilatori .
Se questa è la soluzione giusta, allora non si deve più
murare un solo mattone, che non serva a tradurre
questa scelta razionale nella realtà di domani.
Luigi Firpo