

GIOVANNI PRATI A TORINO
commosso e l’applauso si mutò in vibrante
ovazione e un’onda di entusiasmo accese l’aria
e avvolse calda la figura imponente e magnifica
del poeta che ben s’inquadrava fra il portico
del loggiato e il peristilio. Alto della persona,
corpo snello, slanciato, lunghe chiome nere
inanellate che cadevano morbide sulle spalle
ampie, quadrate, con quegli occhi scuri, lucenti,
lampeggianti; con quel naso superbamente
greco e la bocca sensuale e sdegnosa ombrata
da due baffi nerissimi e corretta verso il mento
da un pizzo morbido imperiale, impersonava
come meglio non si poteva la maschia bellezza
della sua poesia.
Le donne furono conquistate di colpo; gli
uomini provarono per lui un’irresistibile sim
patia.
Il più grande fra i poeti romantici, in
quell’ora viveva nell’atmosfera più romantica
che mai fosse esistita. Sempre accompagnato
da continui applausi, egli entrò nell’aula del-
l’Università, salì sulla pedana appositamente
disposta ed iniziò declamando la ballata:
I l
Conte Rosso.
A tutta prima apparve enfatico, impotente
a smorzare, a graduare, a sfumare; ma poi la
sua voce sonora, estesa, vibrante, irruente
quando più accese e appassionate si avvicen-
devano le strofe, finì per convincere, trascinare,
commuovere, stordire.
La ballata del
Conte Rosso
gli permetteva
di fare sfoggio di tutte le sue qualità più belle
di dicitore, e quando nelle ultime strofe, con
voce possente, osannante, trionfale, esaltò la
vittoria delle armi Sabaude, dall’aula gremita
partì un grido di ammirazione e fu consacrato
poeta da una di quelle formidabili ovazioni
che tolgono il respiro e le forze a chi le riceve.
Il Prati da quel momento aveva conquistata
Torino. Più tardi conquistò degli amici, dei veri
amici che nell’intimità lessero profondamente nella
sua anima: videro in lui quel buono fanciullo di cui
il Pascoli parìa in una sua nota poesia; videro in
lui quell’innocente perdigiorno che Carducci esalta
nel suo
Congedo.
Coi giovani egli era giovane, pieno d’infantilità, e
d’umore allegro e bizzarro li superava talvolta con
certe innocenti monellerie di cui nessuno l’avrebbe
detto capace. Amava lo scherzo; ma non giocando a
tarocchi.
Appassionato giocatore di tarocchi, quando era
in procinto di perdere la partita, si infuriava, s’esal
tava, bestemmiava, come se invece di rimetterci un
semplice caffè, dovesse rimetterci un milione. Se
guadagnava, diventava allegro e appariva cosi pro
fondamente soddisfatto che anche dii perdeva, se
ne compiaceva.
Egli avrebbe rinunciato talvolta agli inviti deOa
società elegante per restare fra i buoni borghesi e gli
studenti; ma invece i piùaristocratici salotti di Torino
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se lo contendevano. Anche la Reggia prese in benigna
considerazione il poeta Prati e Carlo Alberto volle
che gli fosse presentato.
Accolto dal Re con molta simpatia, egli si degnò
di commettergli un inno che musicato doveva essere
cantato dalla truppa.
Il poeta si affrettò a comporlo sotto il seguente
commento:
Poesia ordinato da Re Carlo Alberto per
una fanfara militare.
L’inno che si componeva di
unamezza dozzina di quartine, esaltava la fratellanza
e l’unione degli Italiani raccolti sotto le insegne
Sabaude: *
Tatti suoi d’un so! paese
solo nn sangue in noi traspar,
a ogni tromba piemontese
mandi un’eco e l’Alpe e il mar!
Tatti all’Alpe • sol Ticino
d (accalca an sòl
Carlo Alberto a il
■a la voce del guerrieri
Con an ministro come La Margarita, l’inno non
poteva corto far strada, e Corto Alberto aempre ia