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S I CERCANO L E TRACCI E DI STENDHAL A TORINO

E

nrico Beyle è stato un vo­

lontario fuoruscito fran­

cese in Italia. Per una vasta

cerchia di intellettuali collegati

da una quasi confessionale

complicità ammirativa, egli è

il più celebre e certo il più

interessante degli innamorati

d'Italia. Ricerche perseveran­

temente amorose in quella

biblioteca di Grenoble che con­

serva chilogrammi di zibaldoni

dell'implacabile annotatore

hanno ormai messo in luce

quello che in diari quasi quo­

tidiani egli ha fissato nei suoi

vagabondaggi e nei suoi sog­

giorni italiani.

Morto nel 1842 a Parigi per

un insulto apopletico, conse­

guenza postuma dell’essere

stato una sera dell'anno 1800

imprudente a Milano, ha vo­

luto che l’unica iscrizione su

quella tomba, che probabil­

mente non gli dà pace sotto

il rumoroso viadotto di ferro

che incide, profanandolo, il cimitero di Montmartre,

fosse: «

Enrico Beyle, milanese

».

L ’Italia del suo «Giornale » è la vera, quella che

egli ha visto con i suoi occhi e riprodotte con la più

scarna semplicità. Quasi tutti coloro che hanno

scritto sull’Italia si sono creduti in dovere di mentire

sfrontatamente; hanno inghirlandato di frasi enfa­

tiche la povertà delle loro impressioni. Non si sono

rassegnati a vedere l ’Italia triviale e naturale come

è ogni creatura vivente, che della carne ha gli splen­

dori, ma ha pure fatalmente le miserie. L ’hanno

agghindata e mascherata, ciascuno a proprio modo.

Hanno fatto delle frasi, e continuano a fame. Un

tempo melanconiche e pompose, alla maniera di

Chateaubriand: poi tenere mistiche simboliche, pre-

raffaelitiche, psicologiche alla maniera di Bourget, di

Ruskin, di Barrès... Ve ne sono delle bellissime, che

non sono affatto da deplorare; ve ne sono delle noio­

sissime. Enrico Beyle non ne faceva nessuna. Invece

di indossare la toga dello stilista e di non permettersi

che una fraseologia di lusso, trovò che l'Italia, e non

una Italia di maniera ma l'Italia viva e reale, bastava

a sè stessa. La adorò come la

vedeva, tutta nuda, nella fa­

migliarità del suo atteggia­

mento. Ne parla senza elo­

quenza. Ci riposa di quelli che

neparlano troppo ornatamente.

Perfino arrivando a Roma

Beyle non crede necessario di

elevare il tono. Di solito, ogni

viaggiatore che varca la Porta

del Popolo, o più attualmente

scende alla stazione di Ter­

mini, diviene automaticamente

enfatico come Cicerone e so­

noro come una tuba romana.

Beyle si sfila gli stivaloni, si

accomoda al fuoco del camino

e ci parla dell’albergo, della

servetta che gli piace abbrac­

ciare, del suo cocchiere e dei

suoi bagagli.

È nel primo suo viaggio

italiano che troviamo qualche

accenno al Piemonte. In quel-

l’eminentemente napoleonico

anno 1800,dopo un’adolescenza

grigia nella pedantesca casa

patema, tenero ed inaridito, ardente e compresso,

avido della vita ed impacciato dinnanzi alle sue

offerte, licenziato dalla scuola Centrale di Gre­

noble, inscritto alla Scuola Politecnica di Parigi,

è mandato solo alla capitale. Egli approfitta della

nuova libertà per non fare nulla di quello che si

attende da lui. Dopo sei mesi di solitudine e di

tentativi di vita mondana, di tenerezza senza desti­

natarie e di sogni senza mèta, pieno di entusiasmi

romantici e guerrieri, partiva per l’Italia al seguito

dei già influenti cugini Darà. Sognava di trovare

amore e gloria. Non vi trovò che una malattia ingua­

ribile ed il grado di sottotenente dei dragoni. In qua­

lità di aiutante di campo Beyle, non ancora ventenne,

seguì il generale Michaud di guarnigione in guar­

nigione.

Le traccie del suo passaggio in Piemonte hanno

inizio con l’arrivo, da Milano, a Voghera il 5 vendem­

miale dell’anno X (30 settembre 1802). In questa

cittadina l ’unica cosa che trova degna di annotazione

è un uomo che suonava molto male il clarinetto.

A mezzogiorno ne riparte, inforcando il suo cavallo

reggimentale e facendosi seguire da un asino che,

con la spesa di sette lire, gli porterà i bagagli fino ad

Alessandria. Attraversa il campo di Marengo, la cui

fama è allora di recentissima data; vi osserva degli

alberi mozzi ed abbattuti e copioso ossame di uomini

e di cavalli. Egli nota che sono passati esattamente

quindici mesi e quindici giorni dal 25 pratile in cui

ha avuto luogo la battaglia così decisiva per le for­

tune napoleoniche. A questo proposito è interessante

scovare un suo appunto autobiografico compilato in

modo da lasciar supporre la sua partecipazione alla

cruenta e gloriosa giornata. La frase suona così:

«...

ivi avvenne la battaglia di Marengo. Beyle ci fu

».

In realtà egli attese al suo favorito Teatro della

Scala le notizie della battaglia; a chi però glielo

avesse obiettato, egli sarebbe stato pronto a ribat­

tere che la locuzione «ci fu »intendeva soltanto infor­

mare che egli, in un’epoca della sua vita, aveva

visitato il campo di Marengo. Di questi trabocchetti

gustosissimi ve ne sono parecchi nel diario sten-

dhaliano.

In Alessandria prende alloggio all’

Albergo d’Italia,

che forse esiste tuttora (?), dove trova «che lo hanno

scorticato in un modo piuttosto energico ». In com­

penso riesce a farsi pagare alcune partite di biliardo

alle spalle del collega Lanoue, che egli qualifica di

* imbecille ». Il generale Spital, comandante della

piazza, lucra 1200 franchi al giorno, effettuando,

d’accordo con il prefetto, il contrabbando del grano

con la Liguria. Il i° ottobre un vetturino, per il

compenso di 12 lire, lo porta in Asti. Vi è da attra­

versare una zona di terreno argilloso assolutamente

impraticabile d’inverno e quando piove. In tali cir­

costanze il percorso Torino-Alessandria si effettua

per Casale. Il

Leon d'oro

(che esiste tuttora) lo ospita

in Asti.

Il

giorno seguente il giovane dragone è alla

Bonne

Femme

di Bra; ma il successivo 3 ottobre l’insoffe­

rente viaggiatore si è allogato presso il dottor Fanotio

(l’ortografia di questo cognome appare errata) che

egli qualifica di «

vecchio avaro

». Il soggiorno a Bra

si prolunga per una quindicina di giorni. Una par­

tita di caccia che lo obbliga ad attraversare a guado

la Stura, gli fa prendere delle coliche ventose che cura

con dieci salassi.

Dal 2 1 al 23 ottobre fa una scappata a Torino.

Gli appunti su questa gita sono così scarni che

si possono riportare per intero:

«

26 Vendemmiale.

-

Vado a Torino con il capi­

tano Frère e sua moglie; vi passo due notti. Pranzo

due volte alla Cittadella dal capitano Contano, vedo il

capitano Ludot. Il viaggio

è

costato soltanto

1 5

lire.

Ritorno il 28

».

È un po’ poco per la capitale, anche se tempora­

neamente detronizzata degù Stati Sardi!

Assai diffuse sono le sue notazioni su Saluzzo,

ove una settimana dopo si reca da Bra, passando

per Fossano. Vi alloggia presso il conte Benevello

della Chiesa, che ha sposato una figlia del marchese

di Saluzzo. A Savigliano partecipa ad un pranzo

di Corpo, alla mensa ufficiali, nel qual nota la bana­

lità del suo vicino Capitano Frère (quello stesso con

cui aveva fatto la gita a Torino).

Al principio del nuovo anno 1902, Beyle è di

ritorno a Grenoble per uno di quei frequenti con­

gedi che hanno costellato la sua zoppicante carriera

militare prima ed amministrativa poi.

Altre peregrinazioni in Italia Stendhal farà nel

18 1 1 , 1813, 1815 e 1818, per insediarsi infine quale

console francese a Civitavecchia negli anni maturi.

Ma quanto abbiamo riferito è tutto ciò che abbiamo

potuto spigolare su Torino e sul Piemonte.

Nelle carte di Grenoble compaiono, per quanto

ci risulta, soltanto due accenni a Torino e cioè: il

lascito (in una pagina di diario datata il 4 ottobre

1832 da Roma) del manoscritto di una trama di

romanzo, «

Une position sociale

», al signor Abraham

Constantin, il quale ci risulta essere un pittore di

miniature le cui opere più importanti sono nella

Pinacoteca Torinese; e la richiesta al conte Cini di

Napoli, in una lettera parigina del 1840, del mano­

scritto del «

Tasso

» che un certo Alberti intenHp

pubblicare a Torino. Il che lascia supporre ci^

Stendhal abbia avuto con la vita torinese rapporti

più significativi che i due pranzetti alla Cittadella

nel 1802.

Questo è tutto. Eppure Stendhal è certamente

stato altre volte a Torino. Sappiamo che da Milano

ve lo mandava di tempo in tempo Angiolina Pie-

tragrua per togliersi dattorno un amante troppo

ingombrante. Che egli abbia trattato la nostra città

come una di quelle donne che egli amava troppo per

decidersi a parlarne? Sarebbe troppo grande orgoglio

campanilistico il supporlo: ma forse in qualcuno dei

suoi appunti qualche altra parola su Torino si deve

trovare. Saremmo grati se qualche stendhaliano ce

la rivelasse. E ci rivolgiamo pure a qualche amico dei

ricordi della nostra città perchè ci dica se il passaggio

di Enrico Beyle per il Piemonte e per Torino ha

lasciato qualche traccia in diari indigeni. Ma è molto

improbabile. Il grande scrittore non aveva allora

nessuna aureola e neppure alcun atteggiamento che

potesse imporlo alla folla. L ’uomo che profetizzava

egli stesso con precisione matematica che non avrebbe

incominciato a destare qualche interesse che verso

il

1880

si confondeva con la massa. Non vi sarà

stato nessun chiaroveggente che si sia accorto di

essere passato a fianco di uno dei rari uomini vera­

mente rappresentativi di un’epoca storica ed intel­

lettuale?

EDOARDO ROGGERI

Si cercano le Iraccie di Slendhal a Torino

H # » r i I t f k - ( S t r a m b a i )

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