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e usi dei francesi, dei quali parlano la lingua

con dimestichezza: anzi, vedendo arrivare

nella lor patria un milanese, un veneziano

o un genovese hanno perfin l'abitudine di

dire: ecco un italiano . Inutile meravigliarsi.

La posizione geografica e il fatto che la Casa

regnante traeva origine dagli estesi domini

oltremontani spiegano il fenomeno.

Come suppergiù in tutte le capitali, anche

a Torino dovevano essere in quel tempo

— dopo il calar del sole — crudi contrasti

di luci abbaglianti e di tenebre fonde. Nei

palazzi i cento accesi doppieri: all'aperto il

buio tetro, solo interrotto dai fiochi bagliori

di rade lanterne a sego. Queste datavano

dal 1675. quando Madama Reale Maria Gio­

vanna Battista di Nemours, reggente lo Stato

in nome del figlio minorenne \ ittorio Ame­

deo I I . aveva comunicato al Consiglio della

Città » l'intenzione che si tenessero le strade

nette e illuminate « ad effetto che vi si potesse

camminare spediti. Dapprima le lanterne

erano state appese a pertiche. Dopo sedici

anni ai sostegni di legno si sostituivano quelli

di ferro.

Ben altro era nelle sale ove, al brillare dei

lampadari di cristallo, si svolgeva la vita di

società, consistente, di regola, in famigliari

e amichevoli conversazioni. Domenico Ca-

rutti. nel suo libro

11 Regno d i Carlo Ema­

nuele I I I .

rammenta i nomi del marchese

di Prie e di madama Martin nei cui salotti

si teneva circolo, e della signora Martin.

« bella e spiritosa •, aggiunge che nella sua

casa solevano convenire « i dotti forestieri .

\ i era poi notata, rileva il Dutens. « l'assi­

duita dell'ottuagenario marchese di Breglio .

vegeto, buon parlatore, sempre gaio, galante

al punto da inviare ogni mattina alla dama

un mazzetto di fiori, presentarsi al suo palazzo

verso mezzogiorno per informarsi della salute

di lei e ritornarvi dopo pranzo per la conver­

sazione. Consuetudine che durava da anni.

L nico premio: l'onore di baciar la mano alla

signora e il piacere di raccontarle aneddoti

della propria vita trascorsa, durante la giovi­

nezza e la maturità. « sui campi e alle Corti ».

Era uno stagionato cicisbeo, ma non ne

mancavano di giovani. Tutto il mondo è

paese. L'uso dei cavalieri serventi, che a

Venezia era salito pressoché al grado di isti­

tuzione. vigeva anche a Torino e se vi era

in proporzioni minori si doveva alla frequenza

delle guerre che impegnavano diversamente

il patriziato.

L n gradito svago offrivano i teatri. S'apriva

in carnevale, con opere e balli, il « Regio .

costruito su disegno dell'arehitetto Benedetto

Alfieri e inaugurato nel 1740 con

VArsace,

melodramma del Metastasio. musicato dal

maestro Feo. Nella medesima -tagiooe si

davano rappresentazioni di varietà al teat

del principi* di Carignano. dove, negli al

mesi, s'avvicendavano le commedie e le t

gedie. recitate da compagnie italiane o fra

cesi. Altre pubbliche sale non v'erano.

Gallo . in via Po, ora teatro <>Rossini »,

il « Guglielmone », successivamente chiama

« teatro d'Angènnes >e in sèguito « Gianduja

non furono eretti che nel penultimo o te

z ultimo decennio del secolo decimottav

Lasciamo imprecisata la data perchè il Bo

bonese (1) assegna la costruzione del pria

all'anno 1793 e del secondo al 1786, ma s

di fatto che entrambi sono già registra*

nella « Guida > di Onorato Derossi, usci

nel 1781. dove si legge che vennero dipint

e decorati tutt'e due dal pittore Guglielmi

Levra.

In conclusione, nel 1750 i ceti abbienti

avevano a disposizione due teatri. E il popolo?

Questo si divertiva a Porta Palazzo, alle

facezie della commedia dell'arte improvvisata

da attori girovaghi su rozze tavole smonta*

bili. I n quissimile del Carro di Tespi. Ce ne

ha lasciato efficace documentazione il pittore

Graneri. seguace di Pietro Domenico Olivero,

in una tela di proprietà del Civico Muse*

d'Arte Antica, rappresentante il mercato por»

tapalatino in quegli anni.

Della vasta piazza che oggi s'intitola a

Emanuele Filiberto, allora non era sistemata

se non la parte limitata dai portici juvariani,

ed il rimanente, prima d'arrivare al sobborg#

Dora, era rustico, con bassi edifici sparai

qua e là. Nel quadro si scorgono: una locanda]

con la sua insegna, i banchi di frutta. erbaggiJ

polli, macelleria; il mereiaio con la cassetta

a tracolla, bimbi festanti, persone in crocchio;

e tuttociò è grazioso; ma che spicca è il mode*

sto palcoscenico alPaperto su cui agiscono

una dama, un arlecchino e due signori, menj

tre un pettoruto pulcinella. sopra un asino!

s'avanza tra la calca dando di fiato a ua

corno, preceduto da altre maschere, una dell!

quali suona il tamburo. I na quinta maschera

dal palco, si curva servizievole a porgeri

qualcosa a uno spettatore. Codesto particol

lare fa nascere il dubbio che si tratti d 'u n i

scena buffa imbastita per favorire la vendili

di qualche mirabolante specifico; ma quelli

che alla prima sembra una stranezza si spiega

se si pensa ai rapporti d'affari e addirittura

alle autentiche associazioni che legavano speN

so tra di loro comici e ciarlatani nei seco!

decimosettimo e decimottavo.

L'attore, recitando in piazza, radunava

gente. Negli intervalli della commedia I

« dulcamara spacciava le scatolette del su i

farmaco. Alcune di queste alleanze sono coaj

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