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I

il

j

roso Reggimento a piedi sacrificatosi sul vicino

Podgora.

Ma giunto sulla splendida costa liburnica, ecco

apparirmi Fiume finalmente italiana che, dopo gli

ardimenti, i dubbi e gli errori esultò col Sovrano

saggio e Vittorioso, col Poeta liberatore e col Mi­

nistro rigeneratore. Ed ecco queU'amarissimo mare

di cui perfino il frodato Patto di Londra ci aveva

riconosciuto il dominio. Il nostro mare! Nostro per

il bel nome italico che la storia del mondo gli

diede, nostro per l'immensa ed antichissima gloria

delle Triremi Romane e delle Venete Galere che lo

dominavano, nostro per il possente palpito dei suoi

flutti, che con ritmico ed immenso respiro si fran­

gono da millenni sulle due opposte sponde.

Se da una parte noi abbiamo una spiaggia ricca

per pittoresche e splendide bellezze che apre quale

sirena incantatrice le sue braccia ai facili amplessi

dell'onda, dall'altra riva abbiamo invece un Lido

sinuoso e frastagliato al pari di un ricamo tellurico,

sì che sembra una pudica najade che voglia conten­

dere le sue bellezze ai baci del mare.

E così, mentre la costa occidentale offre fidente

tutta se stessa al primo sguardo amico o nemico,

quella orientale si cela gelosamente come si celò la

marina austriaca durante la grande guerra, oppo­

nendo sicura e naturale difesa e costituendo una

strana e curiosa striscia di terra che le Alpi Di-

nariche ed i Monti Velebiti dividono dal mondo

slavo retrostante, tutto diverso dal nostro moral­

mente e fisicamente, striscia di terra che sembra

si stenda e si insinui fra un intricato dedalo di

amene spiagge, di grandi e piccole isole popolose

e verdeggianti, fra scogli rocciosi emergenti a fior

d'acqua, fra canali azzurri e tranquilli.

Poco dopo il mio sbarco io ebbi la ventura di

poter far garrire al vento il Tricolore vessillo dal

Quarnaro fino a Meleda presso Ragusa. e di erigere

il millenario e glorioso stemma Sabaudo su ben cen­

tosei caserme dell'Arma dei Carabinieri del Re d'I­

talia.

E volli ch'essi, creali in questa patriottica To­

rino centoventisette anni or sono dalla Maestà di

Re Vittorio Emanuele I, ed organizzati meraviglio­

samente dal Generale Marchese Thaon di Revel di

Saint-André, recassero nella bella Dalmazia nuova­

mente italiana, non solo la bandiera della Patria e

lo scudo del Sovrano, ma tutta la tìpica genialità del­

l'anima latina, la venerata memoria dei loro puris­

simi eroi e l'incrollabile loro fedeltà secolare.

Nati dal popolo di una delle riviere del

Mme

\o-

strum

volli che portassero fra il popolo deU'altra

sponda il ricco e sacro patrimonio delle avite tra­

dizioni, il generoso spirito di sacrificio e la sublime

ed ineffabile poesia del dovere, onde compiere la

cobilistima loro aaissione colla magnanimità del

consoldato, colla coscienza dell’apostolo, coll’ altruismo

del filantropo.

Volli che ricordassero tenendoli scolpiti nella

mente e nel cuore i magnifici versi del grande pa­

triota e gentile poeta canavesano Costantino N

igra

:

« Del Re custodi e della legge, «chiavi

sol del dover, tisi obbedir tacendo

e tacendo morir ».

Volli infine che solennemente chiara emergesse la

sostanziale differenza esistente fra la francescana

opera di questi generosi soldati diuturnamente com­

battenti

• .................. contro il male

pronti la mano a porgere

fra la gioia e il dolore

a tutti eguale

salda, benefica i,

e quella dell'odiato mercenario gendarme il cui

sguardo ammonitore costituiva il primo gradino per

salire alla forca ed i cui atti si compivano quasi

sempre non in omaggio alla legge, ma secondo l'ar­

bitrio suo o quello dei governanti.

La Dalmazia, diciamolo francamente, non fu co­

nosciuta. Lo prova quel triste fenomeno che l’Ec-

cellenza Piero

B

o l z o n

.

mio antico e valoroso sotto-

tenente durante la guerra, definì prima « Idealismi

ingenuo di Bissolati, poi pace di ispirazione stra­

niera paludata di dubbiosa e disonesta filantropia ».

Ciò si riferiva all'intervento di queU'America, da

noi scoperta, che ci aveva imprestato un reggimento

di nostri emigrati, dei dollari mal guadagnati e 14

punti di una ben equivoca politica wilsoniana.

Allora non si volle sapere che la Dalmazia contava

venti secoli di civiltà latina; che nel 229 a. C. Roma

combatteva le sue guerre illiriche contro i pirati

deU'Adriatico, mentre Zara ancor prima di Giuli«|della Santa Alleanza del 1815, assegnava la Dal-

Cesare costituiva quel municipio allora chiamato Ja-

Romana, nè si volle ricordare lo sviluppo edilizi

e sociale di pura impronta latina, e quella piei

ed asoluta affermazione civile e politica che dii

a Roma ben quattro imperatori dalmati, tra i

Diocleziano da Spalato die costruì il suo splendi

palazzo presso Salona, ove trascorse l'ultimo di

cennio di una fortunosa esistenza.

Non si volle sapere che dopo il Regno di Giuli

Nepote. di Odoacre e degli Ostrogoti dominanti IT

talia, la Dalmazia passò all*Escreato di Ravenna

capitale Zara.

La Chiesa di Cristo brillò con San Girolamo

Stridone e col Pontefice zaratino Giovanni IV,

chè per le fiere proteste di San Gregorio

contro le invasioni degli Avari e degli Slavi, i

piombando come sciacalli distrassero le città

iviera radendo al suolo perfino Spalato, <

tava allora ottantamila abitanti. Non si volle tener

conto che Roma, benché allora decadente, fece pre­

sto risorgere le distrutte città e come verso il mille

abbia cominciato a svilupparsi l'influenza dell'alato

leone su quelle spiagge e su quelle isole che si die­

dero completamente a Venezia la quale le governò

con la sua tradizionale saggezza.

Intanto, dimentico della sua origine italiana.

Napoleone, Generale di una recente Repubblica

nata da un patibolo regale, vendeva quella ultra­

millenaria di San Marco alla quale, quando vacilla

l'antica veneta potenza, giunge dalle dalmate spon­

de l'estremo eccitamento alla resistenza e non con

le parole soltanto, ma con le braccia dei figli ge­

nerosi.

Allora solo alla violenza delle armi i Dalmati ce­

dettero e portando in processione il purpureo gon­

falone lo seppellirono religiosamente al pari di un

corpo santo esclamando piangenti come il loro cuore

ne fosse la tomba e le loro lacrime il più grande

elogio, gridando a San Marco la celebre frase: « Vii

con ti

, fi

con nu

».

Fu all'alba dell’Ascensione del 998 in cui Cherso.

Zara, Orsaro, Trau, Sebenico, Spalato e Ragusa

accolsero festanti le venete galere, vero emblema di

possanza e civiltà, e che assieme ai Dalmati ave­

vano sconfitto i Saraceni. Da allora ogni anno in

quel giorno il Doge, non invano, pettata il simbo­

lico anello nell'onda che univa indissolubilmente

le sorti della Repubblica all'Adriatiro. il cui pos­

sesso era la vita che veniva appunto dalla Dalmazia,

memore di Belisario e Narsete che poterono solo

per la Dalmazia penetrare in Italia.

Il mercato di Campoformido si ripetè a Versaglia

dove una nuova edizione anglo-franco-americana

pazia, già a noi concessa dal Patto di Londra, alla

dera. Non si volle leggere l'antichissima lapide dwlimprovvisata Jugoslavia, e ciò in ricompensa della

reca il nome di Augusto quale padre della colonii|nu*tra clamorosa vittoria sul Piave, collocandocela

?r tal modo come una spina nel fianco e come un

liato gendarme a guardia del nostro mare!

D’Annunzio, nel gennaio 1919, nella sua lettera

Dalmati, così scriveva : « E qual pace finalmente

imposta a noi, poverelli di Cristo? Pax

ra? Pax britannica? Pax stelligera? Miserere no-

i ! ». D'Annunzio

è

morto, ma le sue parole che

io di una verità palpitante furono religiosamente

rcolte quale sacra eredità da Mussolini e da Hitler,

uomini di genio, di cuore e di fegato, i quali

un ventennio rappresentano un solo principio:

libertà morale, sociale e politica dell'Europa;

ad una sola méta comune, la pace con gin-

i; combattono una «ola battaglia decisiva :

q-el-

fra Poro e il sangue; e per ciò strapparono dalla

del tronfio a g«—tlcmcnt » l'ipocrita sna ma­

schera di galantuomo e vi trovarono il ghignante

ceffo del « gangster » americano e la mutria feroce

del cosacco!

La Dalmazia non riconobbe altre sovranità che

quella di Roma e Venezia, entrambe nazionali per­

chè italianissime e costituenti le due glorie, le due

civiltà e le due potenze più grandi della terra, e ciò

accadde anche in quel torvo Medio Evo in cui il

concetto della Patria si limitava agli stretti confini

dei bastioni e delle torri merlate delle città e dei ca­

stelli anziché alle Alpi ed al mare. Infatti allora

solo un lieve sprazzo di vivida luce rischiarò la

movimentata vita di quei tempi richiamando le

menti all'idea della libertà.

Roma e Venezia lasciarono in Dalmazia indele­

bili ed irrefragabili impronte in ogni manifesta­

zione della vita, del pensiero e dell’arte, sì che

talora sembra d’essere nella Roma imperiale e ta­

lora nella tipica e magnifica città dei Dogi.

E chi non ricorda i Comuni di Arbe e di Cattaro?

Veri esempi di libertà rispecchianti fedelmente l'a­

nima italiana del t#»mno?

Chi non ricorda ita^usa coi suoi dodici secoli di

floridezza politica e sociale, coll'inflessibile sua in­

dipendenza repubblicana chiusa nella sue mura se­

vere nelle quali per l'arte che l'adornano, splende

il raggio della più pura italianità impressale da

tanti artefici fiorentini? Le memorie della grandezza

romana giacquero inerti e sopite, ma allora l’ italia­

nità nostra si ricoverò tra le pagine del più grande

poema dell'umanità, di quel poema dantesco che

racchiude tutta la storia del mondo, tutti i palpiti

della vita umana ed i vaticini dell’ avvenire.

Le scienze, le lettere, le arti trovarono in Dal­

mazia appassionati e celebri cultori il cui nome

ebbe eco mondiale. E* qui che il « Sì » proclamato

da Dante come stigma del nostro « bel paese » ri­

suona venezianamente come un fresco e limpido

trillo e fa dire:

• Orio, fradei,

sa me rapi,

resteremo quei

te del u ».

Quel « Sì » con cui si ammonisce la piccola dal­

mata dicendole:

la tiagua nostra

*i

bella e para

e

parle r e i» l'italian — S — S a.

E’ qui che il nostro idioma ebbe i «noi maestri

— come Tommaseo, Fortnnio, Muasofia, Mare*

Polo, Paravia, Colautti e, sommo fra tutti, il Fo>

scolo — è qui che U più gentile fra i dialetti d i -

k

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