

Nella chiave laicamente provvidenzialistica della
gouache
deamicisiana, capace di
fissare in uno stereotipo edificante la composita e complessa schiera degli agenti e
degli eventi risorgimentali, si può cogliere tuttavia la liberatoria di una più ampia pro–
spettiva, che ci consente di adottare i termini di una cronologia meno rigida di quanto
conceda di per sé il tempo obbligato di un anniversario come quello del 1848. Con la
per altro rassicuran te conseguenza di veder fissato uno spazio, questo sì indiscutibile,
oltre il quale - a detta di tutti i testimoni - non vi sarebbe che periferia, o quasi.
E dunque solo dopo la citazione deamicisiana possiamo finalmente tornare all' an–
nunciato Arnulfi-Alarni per appropriarci dell 'avvertenza fondamentale: che il vero
battito cardiaco della
Ilinerie
torinese - come anche sottolinea prontamente Alberto
Viriglio - sia da cogliere sotto i portici «della Fiera», cioè di piazza Castello, e sotto i
portici di via Po, «sacri dal 1675 agli svaghi dell'esistenza bighellona»4.
Quivi - pennella Arnulfi - il Piemontese del vecchio stampo passeggia con gravità, e fumando a
grosse boccate il tradizionale sigaro Cavour tratta col solito amico della palpitante questione del
giorno. Ivi accanto alla damina che si ferma estatica dinnanzi alle vetrine seduttrici covando pecca–
minosi desideri, passa elegante e sdegnosa la gran dama, ed entra invidiata ad approviggionare
il
suo
arsenale galante nei ricchi negozi del Moris, del Bellom, del Musy, del Bianchi o del Ianetti. E dama
e damina sono sotto i portici in cerca della chiave di un intrigo, del principio o del proseguimento di
un romanzetto, dell'ultimo figurino di Parigi, o vi sono semplicemente per sgranchirsi dall'ozio pro–
lungato o dal prolungato agucchiare. La mamma [.. .] educatrice vi conduce a passeggio la figliola -
poveretta - novello Diogene in cerca di un uomo. La
piccola
-
la
cocotte
torinese - vi sfoggia un
lusso non sempre di buona lega, ma non sempre sfacciato, e passa lanciando e cogliendo qua e là
mezzi saluti e mezzi sorrisi d'intelligenza.
li
giovane elegante, il
tech-tech
torinese, poggiato in caria–
tide con tro il muro dei caffè o contro i prospicienti pilastri, maldice, occhieggia, sorride, saluta e
susurra a bruciapelo la solita frase impertinente alle
bellezze
che passano, a quelle che sono passate e
a quelle che non sono spuntate mai. E ciò mentre si narra ingrandito e si commenta malignamente lo
scandalo di ieri, o si critica alla maledetta l'ultima commedia, o si canticchia stonando la romanza
culminante dell'opera in voga
5 .
È t1agrantemente a queste pagine e ad altre viciniori che attinge Augusto Monti per
il capitolo
A Torino nel cinquanta
nel terzo volume dei suoi primi
Sanssossì (1935) .
Giunto al punto di narrare del padre sceso dalla più aspra Langa a fare il commesso
nella capitale sabauda proprio negli anni del cosiddetto "decennio di preparazione",
Monti non fa che attenersi, nei modi tipici della sua «scrittura d'ascolto»6 ricca di voce
e di voci, ai documenti di una memoria presta a virare alla
couleur locale:
Adesso Papà
il
mistero dei portici della Fiera l'ha penetrato e quel passeggio sa finalmente che vuoI
dire. Alle undici e alle cinque; all'aperitivo: uomini ufficiali gioventù; dopo merenda, dopo benedi–
zione, signore famiglie complete; persone di gran conto e qualità. E arrossisce Bortamfin se ripensa
alla prima calata che vi fece quel dì awiluppato in quel mantello con quel cappellaccio in testa che
pareva un brigante. Ora sa Bortamlìn il piacere che si prova là sotto, dopo due o tre giri solitari e
impazienti di attesa, nell'adocchiare
il
compagno, l'amico, accennargli un saluto, riunirsi a lui, rifar
cammino in due: e allora, par fatto apposta, cento incontri si fanno, cento conoscenze s'incrociano,
si saluta e si è salutati, si guarda e c'è chi guarda te. Ché se poi hai con te uno del tuo paese, racco–
mandato a te perché tu gli sia da guida e duce, allora sì che tu
lì
sotto trionfi. - Moris, Bianchi, Ianet–
ti, Musy; guarda che splendori. Il caffè Vassallo, il Fiorio,
il
Di-Lei. E qui è Marendazzo, quel dell'a–
peritivo. Già: i soliti
tèch-tèch:
quando ci sono loro
lì
davanti non passa più nessuno e i portici par
che li abbiano loro presi in affitto:
patachin,
che se li volti sottosopra neanche un soldo gli vien giù
di tasca. Litta, il duca, l'hai visto? Con quei mustacchi, che pare
il
gatto? «Quei baffi irti e unti [...]
sono imitazioni croate [.. .] il duca Litta deve portar baffi all'italiana;
all'italiana»,
così gli diceva
il
Torino, Roux e Favale, 1880 (ma anche nella ristampa
anastatica del volume, con presentazione di Giovanni
Tesio, Torino, Bottega d 'Erasmo, 1978), pp. 28-29.
che «confortano i piedi e le spalle nei giorni di pioggia o
di neve, ma non hanno note psicologiche speciali, non
parlano al cuore».
4
ALBERTO VIRlGLlO,
Sotto i portici,
in
ID. ,
Torino e i
torinesi. Minuzie e memorie,
Torino, S. Lattes e
c.,
1898
(ma citato dall'edizione Viglongo, Torino 1980, p. 234).
Gli altri portici, «più o meno fastosi, più o meno ampi» -
continua di seguito Viriglio - sono solo passaggi coperti
70
5
ALBERTO ARNULFI,
Vita torinese,
in
Torino
cit., pp.
214-215.
6
Il sintagma
è
di MASSIMO MILA,
Augusto Monti e la
scrittura d'ascolto ,
in «Prospetti», n.
4,
dicembre 1966,
pp. 357-361.