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Ovviamente, sull'insieme delle manifatture metallurgiche continuavano a torreggia–

re i tre colossi di proprietà dello Stato destinati alla produzione di armamenti: «la

Fabbrica d'armi di Valdocco, con

586

operai,

156

macchine,

4

ruote idrauliche [... ]; il

R~gio

Arsenale, con

360

operai,

209

macchine

L.];

la Regia Officina di materiale d 'ar–

tiglieria di Borgo Dora, con

540

operai».

A queste, negli ultimi anni, si erano aggiunte le «officine delle Strade Ferrate dello

Stato con

200/ 300

operai»36. Ma la novità del

1848

era anche rappresentata dal fatto

che le produzioni belliche non erano più appannaggio esclusivo dello Stato. Alle

manifatture reali si erano nel frattempo aggiunti anche costruttori privati. Come lo

spadaio Francesco Gravier, situato al numero

2

di via Arcivescovado; o come Enrico

Rochat, di via della Madonna degli Angioli; o come, soprattutto, Antonio Sickling, la

cui officina, che occupava oltre

250

operai, era confrontabile con quelle statali, impe–

gnata anch'essa nella guerra che si stava combattendo , e destinata ad un ruolo rilevan–

te anche nelle guerre che di

a poco si sarebbero combattute.

In sostanza, il visitatore attento del

1848

avrebbe potuto sottoscrivere, con maggior

ragione, quanto Carlo Ignazio Giulio, con un 'enfasi fors e eccessiva, aveva sottolineato

già nel

1844:

Le macchine, non solamente si importano, ma si imitano, si costruiscono nel paese con successo cre–

scente; dall 'imitare si viene al migliorare, dal migliorare all 'inventare, e l'industria cammina con

passo fermo e sicuro verso la

perfezion~7 .

Ma Torino riservava ben altre sorprese, meno impressionanti, e forse più gradevoli,

di quelle legate alla produzione bellica. Una serie numerosa di ebanisti, stipettai e

intarsiatori provvedeva infatti a mantenere alta la tradizione che aveva visto all 'opera

Piffetti e Bonzanigo.

CosÌ avveniva per Pietro Bertinetti, dal cui laboratorio di piazza Maria Teresa, usci–

vano mobili di «bella forma, buon disegno, giudiziosa sobrietà di ornati messi a oro , e

splendida vernice bianca»38; e accanto ad essi, casse di biroccio «molto notabil[i] per

solidità, per leggerezza, per bel garbo di curvature, per superate difficoltà, per preci–

sione d'intarsiature»39. O per Andrea Perelli, il cui laboratorio di via di San Carlo era

molto frequentato perché specializzato nella produzione di mobili di uso comune,

semplici ma di buon gusto. O ancora per Giovanni Martinotti, che produceva mobili

«di bella disposizione ed ornati di graziosi trafori», ma dei quali «non si ponno tutta–

via lodare le intarsiature»40.

A fornire i materiali necessari all' esecuzione di queste raffinatezze provvedeva poi

Angelo Rosso: grazie alla sega meccanica di cui disponeva, dal suo laboratorio di Val–

docco, presso la Fucina delle Canne, era in grado di fornire fogli d'impiallacciatura, di

ogni essenza nostrana ed esotica, a tutti gli stipettai torinesi. E «particolarmente quelli

d'agrifoglio [erano] notabili per bellezza e dimensione»41.

Ma sopra tutti, vero erede della tradizione settecentesca, primeggiava Gabriele

Capello, detto Moncalvo, dal nome del paese d 'origine. «I mobili della sua fabbrica

per differenti usi dal più semplice al più ricco sono eseguiti con esattezza, con gusto e

purezza di forme, varietà nel disegno, ricchezza ed eleganza nelle sculture ed intarsia–

ture»42. Non tutti condividevano questo giudizio. Se l'esecuzione dei mobili era sem–

pre perfetta «talvolta però entravi un elemento che dal buon gusto, propriamente

detto, li discosta»; il che veniva giustificato con la constatazione che «anch'egli servir

deve ad una potenza la quale, non che la sua, ben cento altre arti signoreggia; la moda,

vogliam dire, appo la quale buon gusto suona lo stesso che buon genere, il genere cioè

36

L.

B ULFERETII

e

R.

L URAGHI ,

Agricoltura, industria

e commercio

cit., pp. 115-116.

J7

Giudizio

1844 cit. , p. 378.

J8

Ibidem,

p. 400.

J9

Ibidem.

40

Ibidem,

p. 405 per entrambe le citazioni .

41

Ibidem.

42

Giudizio 1850

cit., p. 175 .

355