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tili aportiane anche a Torino, ad opera di Bonafous. Perché l'iniziativa - replica di

analoghe realizzate già da anni in Toscana e in Lombardia - riuscisse efficace mancava

però, per così dire - informava Barberi - l'allestimento delle infrastrutture formative

necessarie. A Torino, in altre parole, non c'era nessuno in grado di insegnare il meto–

do aportiano: «Si scelsero [allora] le suore di carità di Rivarolo a direttrici dell' asilo; le

si mandarono a Milano perché apprendessero le ottime norme da cui erano governati

gli asili, e, non ha gran tempo, il primo venne finalmente aperto fra noi». Per quel che

riguarda le iniziative di sapore innovativo, agli inizi degli anni quaranta a svolgere la

funzione di punto di riferimento era, insomma, il capoluogo ambrosiano. Mentre,

visto da Milano, quello subalpino - con le sue Accademie seriose ma lontane dalla

vita, con i suoi giornali noiosi e conformisti, con i suoi regnanti intimamente ostili alla

modernità - pareva per tanti versi una città del passato:

Eccovi riepilogato lo stato nostro attuale. Reazione verso il passato, mentre l'avvenire

ci

incalza: lo

studio dei fatti storici del medio evo fiorentissimo , quello del dritto pubblico dimenticato: ritorno

alle dottrine metafisiche che, trasportando l'uomo nei campi dell'immaginazione e dell'astrazione, lo

allontanano dalla vita reale e dal bisogno d'azione che è prepotente in lui

7 .

E, tuttavia, qualche segnale di novità più che rapsodico - il segno dell'animazione

se non altro di una parte della società civile -lo si coglieva anche nella città dei Savoia;

la quale, in tema di adesione alle correnti della modernità, almeno un primato lo dete–

neva anch'essa: era «la prima città italiana illuminata a gas», da poco solcata nelle sue

vie principali da «una serie di tubi comunicanti l'un l'altro» e collegati a «un elegante

edificio» ove si elaborava il gas. Metafora di progresso, la luce artificiale la sua prima

comparsa ormai l'aveva fatta. Ora ci si aspettava che conquistasse man mano «fondaci,

officine, atrii, scale» e si sperava non lontano il giorno in cui «resteranno solo gli anti–

chi fanali [ad olio] , come protesta del passato contro l'avvenire, a dar prova dell'im–

piombata inerzia contro il movimento, dell' abitudine contro il progresso»8.

A questa prima simbolica epifania, isolata all'altezza del

1840

entro una trama

tutta contraddistinta da un orientamento di segno opposto, se ne vennero aggiungen–

do negli anni seguenti di nuove, via via sempre più significative. Non si pensi a una

istantanea dissolvenza, per i lettori della «Rivista europea», delle nebbie passatiste

entro le quali si erano abituati negli anni precedenti a pensare immersa la capitale del

regno di Sardegna. Ancora nel gennaio

1843,

per esempio, l'«inviato» Pietro Scotto

(uno pseudonimo dietro al quale non sappiamo chi si celasse) era lapidario nella sua

«cicalata su quanto riguarda la nostra Torino»:

Se essa non rimarrà molto interessante datene pur la colpa allo scrittore, il quale non seppe condirla

con frizzi ed arguzie, e alla fredda stagione che gli ha aggranchiate le mani, quando gli veniva la

vena; ma accusatene anche

in

parte i suoi concittadini, che non hanno inventato un nuovo daghero–

tipo o composto degli «Orlandi furiosi» per dargli materia di una letterina piena e pinza di cose

meravigliose

9 .

E t4ttavia non c'è dubbio che a quella data, o poco più tardi, il volto della capitale

subalpina presentasse ormai

altr~

fattezze, rispetto a quelle che ne ingessavano la fisio–

nomia appena qualche anno prima.

Sono fattezze che si misurano in primo luogo con gli occhi e con i sensi, e che

appartengono - è sempre il misterioso Scotto a segnalarlo - all' ambito del «progresso

materiale», l'araba fenice che dà il tono alle aspettative collettive di quegli anni. Una

grande «riforma», per esempio, si annunciava nella primavera del

1843.

Era la

7

Ibid.,

p.

312.

8

Ibid. ,

p.

305.

9

RE,

gennaio

1843 ,

p.

147.

409