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Don Eusebio, di ritorno dalla visita d'ob–

bligo alla Esposizione del 1838 al Va–

lentino, fu attorniato da tutti i suoi

parrocchiani, da tutte le Jucce e Ghite

e Giuspin della sua pieve accorsi a sen–

tire

il

suò resoconto. Don Eusebio non

era nuovo a queste imprese, perché sei

anni prima era già stato

il

reporter del–

la Esposizione del 1832.

Egli, che aveva studiato, sapeva coglie–

re

il

nuovo, sapeva intuire il seme del

futuro nel fiore del presente, sapeva an–

che dare un giudizio critico sui pivel–

lini dell'arte che si lanciavano ai primi

giudizi della pubblica critica; ora dicen–

done bene, ora dicendone male, sapeva

il valore di una esposizione, valore co–

me fatica organizzativa, come difficoltà

di selezione, come somma di problemi e

di preoccupazioni, di punti di vista da

contemperare, di necessità o di pretese

da soddisfare, di finalità cui rispondere.

E veramente per Don Eusebio calzavano

le parole del Timeo che, alzatogli al–

quanto quella maschera di Arlecchino

parve che ne uscisse fuori un po' di bar–

ba di filosofo. Perciò ben poteva irritar–

si contro i suoi paesani, che non sapen–

do apprezzare, per esempio un fiore fatto

con zucchero di barbabietola, si azzuf–

favano per i regalini più consueti che

loro aveva portato.

Si savejsse cucumele

Cos le fe' un'esposission

ch'i è che fe' viré 'l grumele

tant a Socrate ch' Platon.

Si sentiejsse 'n po'

i

rumur

i fastidj, i crussi, i guai,

le preteise, i muso, i piur,

i torment e i tatanaj;

Ma s'iv vedeisse m' po' d'accant

sovra, souta, dna/H, daré

propi pr virtù d'incant

nasve i geni com d' boulé,..

Ma cos'era questa

esposission?

Era la grande rassegna, l'esame generale

e l'esame

di

coscienza insieme di un

Paese, di un popolo che sapeva di ave–

re qualcosa da dire al futuro, e cercava

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di nconoscere

il

suo vero volto dopo

averne alterati i tratti e durante l'occu–

pazione straniera e durante la reazione.

Poiché

il

Piemonte nella sua aria pae–

sana, nell'accusata atmosfera reazionaria,

anche se all'ombra anacronistica del Pal–

maverde, era «quella molecola vitale

che vincerà le forze della morte e darà

il

calore e

il

movimento della vita a tut–

to

il

resto della penisola

».

(Furono que–

ste le parole di un chimico tedesco,

il

Liebig, di passaggio per Torino).

Paesaggio storico

E quale fu una delle forme di rinnova–

mento apparentemente solo economico,

ma in realtà di tutti i molteplici aspetti

vitali che ogni fenomeno economico im–

plica, dalle premesse alle sue conclusio–

ni, tali da poter parlare di un umane–

simo economico? Per Torino furono le

Esposizioni: queste rassegne della capa–

cità, delle possibilità di un popolo, con

caratteri che si leggono impressi non

solo nell'opera letteraria o artistica, ma

nel prodotto di un artigiano, nel manu–

fatto che porta stemperata in sé una tra–

dizione continuamente rinnovata in pro–

cesso evolutivo, il quale lascia in traspa–

renza vedere sustrati e presupposti.

Ora non sto a ripetere quello che già

altre volte ebbi a dire, perché vorrei

qui puntualizzare storicamente un aspet–

to geografico di Torino ed anche eco–

nomico, nell'insieme di un suo paesag–

gio, se per paesaggio vogliamo adottare

la icastica definizione di Dino Gribaudi

«un insieme di fattezze fisiche caratte–

rizzanti un tratto della superficie ter–

restre

».

Ora queste fattezze fisiche non sono

solo gli elementi paesistici, ma anche i

suoi fattori, tra cui principale è l'uomo;

tra natura e uomo avviene un continuo

passaggio osmotico, e imponderabile è

la portata delle reciproche influenze.

Non per nulla

il

Carducci quando

sco-