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UN POETA TORINESE

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GIULIO G IANELL I

(Xllafrmla del pittore Doacalco Bantu)

Graf, che pure l ’apprezzava assai, fossero più affet­

tuose che signorili. A Torino non lo si vedeva se

non solo, lungo via Garibaldi, o al teatro Alfieri,

in platea, in piedi dietro l’ultima fila delle poltrone.

Tozzo, insaccato nelle spalle; una faccia un po’

simile a quella tradizionale di Socrate, ma con un

profondo solco partente dagli zigomi, col naso rinca­

gnato, con la pelle olivastra, mandibole dure e qua­

drate; gli occhi dolcissimi mandavan lampi dietro

gli occhiali a stanghetta. Diceva i suoi versi con voce

cavernosa e con un tono come se li risoffrisse e li

percotesse, sdegnato di averli fatti così dolorosi e

grezzi. Graf gU aveva detto: «Lei è il peggior nemico

della sua poesia ».

Tra gli studenti che frequentavan veramente,

c’era una nidiata di giovani che già davano sicura

promessa del loro alto ingegno e che oggi sono delle

Eccellenze: come Balbino Giuliano, Giulio Bertoni,

Massimo Bontempelli; oppure son diventati rettori

dUniversità e professori di gran fama. Tutti signori,

forbiti parlatori, precocemente nutriti di buoni studi,

verseggiatori eleganti; e tuttavia goliardi, impetuosi

e bellicosi. Aquilotti che mettevan l’ale.

Una volta, un nostro giovane compagno d portò

un ragazzino entrato allora al Liceo. Era suo fratello.

Che bella testa di bimbo! Che eleganza gioconda

di modi!

Era Nino Oxilia, che veniva a vedere com’era, et>me

maturava, amie tramontava la nostra giovinezza.

Addio, giovinezza!

Un giorno, all’Università, noi accompagnammo

Gianelli. Ventanni. L ’esile corpo, il viso tondo e

roseo, il vestito un po’ sommario e un po’ ristretto

davano tutto insieme l’impressione che egli fosse

entrato allora allora

nella

prima adolescenza. C’era

in tutta la sua persona un impaccio ridente, e levava

gli occhi umili e ansiosi a quelli che gli parlavano,

in un modo così strano e supplichevole da conci­

liargli subito la simpatia. I vent’anni sono l’età

buona nella quale i cuori si aprono, le mani si ten­

dono, e si stabilisce una fiducia reciproca. Nessuno

s’accorse che egli non era iscritto, ma tutti gli furono

amici, cominciando dagli studenti più in vista della

facoltà di lettere, a quelli che venivano dalle altre

facoltà. C’era chi l’aveva conosciuto al liceo e se lo

ritrovava con i primi sogni: l’aw . Negretti, suo

compagno fin dai primi anni e testimone dei suoi

primi amori con le muse, il dottor Giovanni Bolo-

gnino, ora a New-York, allora fraterno e ridente

sodale; e c’era chi lo incontrava sui sentieri della

poesia, come l ’avv. Giacinto Bozzi, ora presidente

di Tribunale; Giandomenico Serra, ora a Cluj di

Romania, ed altri ed altri che, risvegliando i ri­

cordi di quegli anni, rivedono tutti il dolce viso

di Giulio.

La sua storia fu subito nota, e, sebbene in appa­

renza non avesse stupito nessuno, ima gentile pietà

circondò la sua persona.

Era orfano.

Aveva un ricordo cocente, nostalgico, sognante

della mamma: la rievocava fanciulla come ora lui;

diciotto anni, quando lui era nato; abbandonato dal

padre che pare fosse un signore, un ingegnere andato

in America, dimentico di chi aveva lasciato qui.

Colla mamma, tenerissima, il ragazzo era stato fino

ai cinque anni, poi essa era morta. Con lei era ter­

minata la sua vita vera, quella del cuore, delle

carezze, delle confidenze, ed era cominciata la schia­

vitù. A pensare come potessero allora avvenire certe

cose c’è da meravigliarsi... Un uomo, grosso e pigro,

di quella indefinibile professione che si chiamava

maestro privato, un po’ cantante e un po’ affitta-

camere, lo pigliò in casa: per una somma che aveva

ricevuto, se ne vantò tutore, per i soldi ch’erano

sfumati si credette in diritto di sfruttarlo. Poiché il

gioco lì per lì era riuscito, allargò il gioco. Si tirava

in casa dei ragazzi a lezione

e

faceva lavorare il

pupillo, che, tornato dalla scuola,

non

aveva

piò

pace fino a notte, e, non bastando questo pagamento,

l’orco andava alle case dei

signori a

sollecitare

con­

tributi

per il mantenimento del fanciullo,

e

gli faceva

scrivere suppliche,

e

lo obbligava ad andare in

per­

sona

a

chiedere,

e,

se

si

ribellasse, ricorreva

alle

pene

corporali.

A

16 anni, vergognoso

e

spaventato

ma

non

fiaccato, Giulio scappò di casa,

errò qualche

giorno,

accostò qualche compagno

di Liceo, si trovò

una soffitta in via

Garibaldi,

dove una donna pie­

tosa

gli

portò un tettuccio di ferro.