

UN POETA TORINESE
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GIULIO G lANELL I
Ribelle e povero! Solo, coi pochi libri avuti da
un rigattiere o dal
bórgnin
di via Po, ma con grandi
sogni. Grandi sogni? Essi son sempre commisurati
alla realtà, la quale, bisogna pur confessarlo, era,
allora, piccola, minuta, limitata. Sembrava bella la
vita di boemo, che il romanzo di Murger, i versi di
Giacosa, la musica di Puccini avevano messo di
moda, ma la letteratura nella vita, anche se le este
riori avventure vi si prestano, è sempre un tranello.
La soffitta accanto a quella di Giulio ospitava uno
scultore della stessa età, Sandro Chiapasco, un ribelle
anche lui, che dal padre era stato messo garzone
marmista al Ponte delle Benne, s’era iscritto all*Ac
cademia senza frequentarla, lavorava alla creta, e
leggeva Poe, Dostojewski, Orazio, Poliziano, i Fioretti
di San Francesco. Chiapasco è ora a Buenos Aires,
dove tra l ’altro ha elevato all’* Almirante Brown »
uno dei più ammirati monumenti di quella metropoli.
Rodolfo e Marcello avevano lo stesso libraio, e,
nelle letture, le stesse compiacenze offerte dalla
fortuna, ma selezionate da un gusto personalissimo.
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Per vivere, Gianelli dava lezioni, il
mestiere che
aveva imparato suo malgrado forse, e
che
in
pratica
si risolveva in una missione spirituale, ma i compensi
erano saltuari ed insufficienti,
cosicché non erano
pochi i giorni in coi anche il tono di pane gli veniva
a
mancare.
Un
giorno cadde ammalato. D medico
del Municipio, salito fino alla sua soffitta, sentenziò
che si trattava di polmonite e pronunziò un numero
iperbolico di gradi di febbre, aggiungendo che la
cosa era particolarmente grave poiché il corpo si
presentava denutrito.
GU amici accorsero, e avvenne il miracolo di un
provvidenziale intervento di una ottima famiglia,
la quale s'interessò ai suoi casi, lo prese a benvolere,
lo assistette, e lo condusse a poco a poco alla gua
rigione.
Melanconica guarigione, poiché ritornare alla vita
volle dire ritornare alle incertezze della esistenza, al
lavoro estenuante, alla constatazione delle difficoltà
quotidiane. Pochi mesi di lavoro e ricadde ammalato.
Questa volta il germe d’un male inesorabile si rivelò
e fu dovuto condurre in un ospedale grande e melan
conico dove passò cinque mesi dall'ottobre ai
primi
di marzo del 1903. In quella triste circostanza, egli
provò la consolazione di vedere quanto
fossero cre
sciuti gli amici, di quanto
conforto essi fossero di
sposti a contraccambiargli la sua generosità di affetti
e il suo
rìdente incoraggiamento alla vita. La ragione
é
che
in
quegli anni, por tra le màdie della malferma
salute e i ritegni
più pudichi della sua innocente
povertà, egti aveva regalato a quanti lo accostavano
un
dono che oggi ione fa sorrìdere e che allora aveva
ancora un <*««««»
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