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ressante e il merito incontestabile della architet­

tura moderna: concepire un alloggio non come

accostamento accidentale di un certo numero di

ambienti, ma come entità organizzata in modo

che in essa possano svolgersi nel miglior modo

determinate funzioni.

Nulla di tutto questo.

Vi è solo uno sfruttamento feroce del terreno,

in base al criterio brutale che il reddito è propor­

zionale al numero dei vani, in qualunque modo

questi sono concepiti.

Sfruttamento che noi consideriamo inintelli­

gente, privo assolutamente di fantasia e tale da

dimostrare una totale assenza di amore per la casa.

Dominano molti luoghi comuni: il più insistente,

quello che maggiormente è responsabile di tanti

aborti architettonici, è quello dei balconi. Ogni

alloggio deve avere il suo balcone su strada, se

no non s’affitta o s’affitta male. Non importa se

manca il bagno (come purtroppo ancora troppo

spesso si constata), purché ci sia il balcone. Un

tale assunto è discutibilissimo, non già perchè

esso non corrisponda ad un constatato abitudi­

nario desiderio della gran massa degli inquilini,

ma per l’uso effettivo che poi di tali balconi fanno

gli inquilini stessi.

Provatevi a bighellonare per la città nell’ora,

supponiamo, del fresco serale nel cuore dell’estate,

ora che è la più propizia per l’uso dei balconi, e

provatevi a contare quanti sono i balconi « abitati *

nei confronti di quelli vuoti. Provatevi poi a tare

il conto delle ore di uso in confronto di quelle di

abbandono e, tenendo presente il rapporto prima

detto, diteci se veramente vale la pena di sprecare

tanto cemento, pietra o ferro col risultato di fare

tanta brutta architettura.

Sono vietate le ringhiere metalliche, perciò il

balcone si circonda di muretti, di masse piene.

Nasce la necessità di una maggiore armatura metal­

lica perchè la soletta possa sostenere tanto peso,

e nasce un incidente architettonico che, soprat­

tutto per la sua ossessionante ripetizione, diventa

una vera tragedia. Tutte le fantasie, tutte le bel­

lurie. si concentrano sui balconi senza che mai

si sappia risolvere la loro pesantezza, il loro sgra­

ziato intrinseco rapporto tra lunghezza e spor­

genza, e quello, non meno sgraziato nella plura­

lità dei casi, tra la loro massa e quella dell’intero

edificio.

La tirannia di certi presupposti quali l’altezza

dei piani, l’altezza dell’edificio, il numero e la

posizione dei balconi, rende estremamente diffi­

cile la creazione di ritmi soddisfacenti che risol­

vano il complesso in una unità assoluta. Occorre

una sensibilità e una fantasia che la maggior parte

dei progettisti dei quali si vale l’edilizia torinese

non possiede. L ’incomodo affiancarsi delle facciate

degli edifici adiacenti fa il resto.

Non neghiamo per principio il balcone: affer­

miamo che esso va meditato di più e che va pos­

sibilmente risolto nel concetto più libero e più

ampio di « terrazzo ».

Perdere il feticismo della fabbricazione totale

e rigorosa a piombo della strada o sulla testa dei

passanti con tutti quegli sporti che, tutto som­

mato, rappresentano un’ illecita invadenza della

proprietà privata a danno del suolo di tutti. Abi­

tuarsi all’idea che è anche possibile (e saggio)

cedere qualche pollice, movimentando le facciate

le quali così si arricchiscono naturalmente di un

efficace chiaroscuro che le può rendere belle anche

senza la parata di tanti inutili e pretenziosi rive­

stimenti e senza il gioco di tante sagomette. Cer­

care il balcone anche in profondità e non solo in

sporgenza, acquistando così la possibilità di modu­

larlo a volontà. Disarticolare le piante dal rigore

del filo stradale, raggiungendo così insperate pos­

sibilità di d

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no, di organizzazione e di

illuminazione.

L ’ambizione del costruttore sta assai meno nella

logica e nella bellezza della distribuzione piani­

metrica, che non nelle apparenze esteriori del­

l’edificio. Si cerca un certo qual preteso decoro

nelle facciate e negli ambienti comuni (androni,

scale, ecc.) ove si impiegano magari materiali

pregiati o, quando ciò non è possibile, tali mate­

riali si fintano.

È costantemente lo stesso principio: badare

di più alla apparenza che alla sostanza.

Un onesto costruttore si sentirebbe profonda­

mente umiliato se l’architetto gli proponesse di

fare una casa con alloggi concepiti con vero rispetto

per la vita che essi devono accogliere, guadagnando

l’eventuale lieve maggior spesa che ciò comporta

col non mettere un quattrino più del necessario

nella facciata, facendo cioè questa onestamente

in calce col regolamentare zoccolino in pietra e

con le aperture ridotte a semplici buchi ben rit­

mati. Solo una minoranza di persone educate si

renderebbe conto della bellezza di una cosa così

fatta: per la gran massa essa sarebbe una povera

cosa, e perciò non se ne fa niente. Il vestito da

festa ci vuole, anche a costo di sacrificare la bian­

cheria più necessaria.

Le

Commissioni edilizie operano passivamente:

giudicano cioè ed eventualmente respingono. £

un controllo a posteriori che evita le peggiori

brutture ma che non vale a cambiare la situazione.

£ un’azione attiva quella che occorre: educare.