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rittura, per scoraggiare le tentazioni, di tener acqua in cantina e con-

sentiva agli sbirri ispezioni improvvise per cogliere sul fatto i disone-

sti; più curioso è leggere di un oste multato per aver servito vino ad-

dolcito con miele, indizio di un gusto per il vino dolce che tuttavia, si

direbbe, per non incorrere nei rigori della legge doveva essere tale in

via naturale.

Nessuna multa, per quanto salata, sembra poi aver scoraggiato alcu-

ni osti dal permettere ai propri avventori il gioco dei dadi, proibito di

giorno e ancor più severamente di notte, e si può immaginare che anche

da questa indulgenza, non foss’altro per il rischio che correvano, essi

non mancassero di trarre profitto. Un caso a parte, che parrebbe ri-

guardare soltanto esercizi di infimo ordine, è poi quello di osti come

Matteo Michelato, che ebbe dei guai con la giustizia per aver percosso

una prostituta ospitata abitualmente nella sua taverna, «ubi ut pluri-

mum tales femine frequentabant». A volte, beninteso, erano gli osti a

essere frodati: nel 1408 Giovanni Visconti si ebbe la multa esemplare

di 25 scudi d’oro perché aveva venduto a Martignone di Front, taver-

niere, una carrata di vino di Moncalieri, e poi in luogo di quest’ultimo

gli aveva mandato del vino di minor valore. Resta tuttavia difficile dis-

sipare l’impressione che le frodi degli osti fossero considerate con in-

dulgenza dall’opinione pubblica, che non toglieva certo a un esercizio il

suo credito per episodi di questo genere; e che l’entità delle multe, mai

superiori ai 5 o 10 soldi, non fosse tale da dissuadere i colpevoli dal ri-

cadere un’altra volta nel medesimo vizio.

Analoghe considerazioni valgono per i macellai, che al pari degli osti

avrebbero dovuto assoggettarsi a regolamenti estremamente minuziosi,

macellando le loro bestie soltanto in luoghi e orari stabiliti, rispettando

precise norme igieniche e vendendo la carne di ogni bestia sul luogo stes-

so in cui era stata ammazzata, senza sottoporla ad alcun trattamento.

Di fatto, quasi tutti i macellai pagavano frequenti ammende per aver

macellato i loro montoni prima che le campane suonassero l’Avemaria,

per aver pesato la carne con pesi difettosi, per averla gonfiata prima di

venderla, secondo una tecnica di cui i beccai torinesi detenevano a quan-

to pare il segreto, nonché per aver tenuto al banco carne di pecora, spac-

ciandola evidentemente per castrato. Le multe previste dagli statuti era-

no ancor sempre basse, di 5 o 10 soldi, tranne nel caso più pericoloso,

quello in cui il macellaio avesse messo in vendita carne di bestia morta,

nel qual caso la multa saliva a 1 lira; cifre, comunque, che almeno per i

beccai più importanti, veri e propri imprenditori che allevavano bestia-

me e ne importavano su larga scala prima di macellarlo e venderne la

carne, erano evidentemente trascurabili.

Gruppi e rapporti sociali

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