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Parte seconda La preminenza sulle comunità del Piemonte (1418-1536)
za, allo sbocco dell’antico decumano, oggi via Garibaldi e allora soprat-
tutto «strata magna», consentiva, se necessario, lo schieramento di trup-
pe e il piazzamento di artiglierie in direzione della città. Esattamente al
centro di quest’ultima, nel luogo in cui convergevano i quattro quartie-
ri della Torino medievale, sorgeva invece la torre del comune; a pochi
passi da quest’ultima si apriva la «platea civitatis», centro dell’attività
commerciale cittadina, equidistante dalla piazza del castello e da quella
della cattedrale, quasi a tenere simbolicamente le distanze dai due po-
teri dai quali la comunità non aveva mai saputo affrancarsi completa-
mente nel corso dei secoli.
Un’analisi della vita politica torinese fra il 1418 e il 1536 può per-
mettersi di lasciare ai margini l’ultimo dei luoghi elencati dall’arcivesco-
vo, cioè il suo stesso palazzo, e il potere ecclesiastico che esso incarnava:
ormai da molto tempo i veri padroni della città erano rappresentati dal
castello del principe e dalla torre del comune, e su questa bipolarità de-
ve incentrarsi l’analisi, nello sforzo di ripercorrere il rapporto spesso dif-
ficile fra l’apparato amministrativo e repressivo insediato nel castello e i
rappresentanti dell’oligarchia cittadina che si riunivano all’ombra della
torre civica. Nei paragrafi che seguono cercheremo di illustrare, da un
lato, il fondamento istituzionale e le dinamiche socio-politiche dell’au-
togoverno cittadino, dall’altro il reclutamento, l’organizzazione e il fun-
zionamento dell’amministrazione signorile; per giungere ad una valuta-
zione conclusiva della complessa dialettica, sempre oscillante fra colla-
borazione e diffidenza, che legava la comunità torinese al principe cui
essa, almeno a parole, si proclamava fedele.
2.
Il governo comunale fra partecipazione popolare e chiusura oligarchica.
Il passaggio dal dominio degli Acaia a quello del duca di Savoia nel
1418 non comportò immediati mutamenti nell’assetto istituzionale del
comune di Torino, i cui rapporti col potere centrale continuarono a es-
sere regolati dagli statuti del 1360. La condizione di comune ad auto-
nomia limitata che contraddistingueva la città anche in questa fase è
immediatamente percepibile nel funzionamento del consiglio comuna-
le o «credencia maior», che non poteva riunirsi se non in presenza del
vicario o del giudice nominati dal duca, o almeno, come avveniva più
frequentemente, di un loro subordinato, e che per giunta poteva esse-
re riformata d’autorità se il suo comportamento dispiaceva al principe:
come avvenne ad esempio nel 1433, quando il Consiglio cismontano,
su precise istruzioni del duca, impose di estendere la rappresentanza