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famiglia iscritti a catasto e almeno ventiquattro maschi adulti, ben set-

te dei quali sedevano sui banchi del consiglio.

La rappresentanza nobiliare nel governo del comune era dunque por-

tavoce, per definizione, di interessi oligarchici e il suo peso politico era

inevitabilmente sproporzionato rispetto alla consistenza numerica della

nobiltà cittadina, che ai primi del Quattrocento comprendeva una cin-

quantina di capifamiglia su un totale di oltre seicento. La rappresentanza

popolare avrebbe dovuto, per contro, dar voce agli interessi della mag-

gioranza dei cittadini, tanto più che non esisteva a Torino un popolo in-

teso come forza politica organizzata, distinta dalla collettività nel suo com-

plesso: l’unica organizzazione che in qualche modo si avvicinava a questa

definizione, la Società di San Giovanni Battista, era stata sciolta imme-

diatamente dopo l’annessione della città al ducato. Sennonché il recluta-

mento dei consiglieri popolari dimostra che anch’essi rappresentavano in-

teressi che possiamo ben considerare oligarchici, anche se su una base più

allargata rispetto alla nobiltà. Lo attesta in primo luogo il loro profilo pro-

fessionale: i

populares

che siedono in consiglio sono in gran parte notai, il

gruppo professionale più numeroso e politicamente più influente nella so-

cietà torinese, che fornisce circa metà dei consiglieri e fino a due terzi dei

clavari di popolo. Ai notai si aggiungono i pochi grossi imprenditori e ne-

gozianti del ramo tessile, lanaioli e drappieri, i mercanti di spezie, i gros-

sisti alimentari, i più rispettabili fra gli osti, e più raramente qualche mae-

stro artigiano di solida agiatezza, cuoiaio, carpentiere, barbiere o beccaio.

Calzolai, fabbri, fornai, merciai, sarti restano completamente esclusi dal-

la rappresentanza politica, al pari di quei tessitori e tintori che esercitano

la loro attività all’ombra dei maggiori imprenditori, e naturalmente dei

vignaioli, braccianti e massari residenti in gran numero in città.

Riservato di fatto agli esponenti delle professioni più prestigiose, il

diritto di sedere in consiglio in rappresentanza del popolo tendeva per di

più a trasmettersi ereditariamente all’interno delle stesse trenta o qua-

ranta famiglie, che finirono così per costituire, accanto alla nobiltà, una

vera e propria oligarchia popolare. Quasi tre quarti dei consiglieri in ca-

rica nel 1418 appartenevano a famiglie che erano già rappresentate in

consiglio cinquant’anni prima, e che avrebbero continuato ad esserlo nei

cinquant’anni successivi. Questo consiglio dall’organico quasi sempre in-

completo, che si rinnovava soltanto per cooptazione, e al cui interno il

ricambio procedeva ad un ritmo assai lento, scandito soltanto dai deces-

si dei consiglieri, coinvolgeva nella sua attività, anche tenendo conto di

tutti i possibili legami familiari, forse un decimo dei Torinesi di condi-

zione popolare; tutti gli altri non avevano alcuna partecipazione alla vi-

ta politica cittadina.

La vita e le strutture politiche nel quadro della bipolarità signore-comune

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