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Parte seconda La preminenza sulle comunità del Piemonte (1418-1536)

ticamente, «quod nisi cum difficultate dicta credencia congregari non

potest, precipue istis temporibus messium». Veniva così infine realiz-

zata, in circostanze di emergenza, una riforma esteriormente simile a

quella preconizzata dal Consiglio cismontano nel 1433, quando aveva

decretato la costituzione di un consiglio ristretto per alleggerire i lavo-

ri del Consiglio Maggiore; ma con un organico assai più ridotto e una

composizione ben diversa da quella allora suggerita, poiché i nove elet-

ti nel 1490 erano quasi tutti notabili.

La serie degli

Ordinati

del consiglio comunale presenta una lacuna di

parecchi anni proprio a partire da quella data, sicché è impossibile giu-

dicare i risultati immediati del nuovo ordinamento; a partire dai primi

anni del Cinquecento, tuttavia, il sistema dei due consigli appare ormai

radicato. Le riunioni plenarie della credenza divengono sempre più rare,

mentre il disbrigo degli affari correnti è lasciato a un piccolo gruppo di

consiglieri, in grado di riunirsi con maggior frequenza e con minori for-

malità. Nel 1523, un anno scelto a caso, la credenza si riunì in seduta

plenaria appena cinque volte, mentre l’ordinaria amministrazione venne

sbrigata da una giunta cui intervenivano raramente più di sette od otto

consiglieri, e che si riuniva con frequenza poco meno che settimanale.

Sul piano sociale ed economico la rappresentatività di questa «minor cre-

dencia» non era in alcun modo paragonabile a quella del Consiglio Mag-

giore. Nell’anno che abbiamo preso ad esempio, quest’ultimo contava

una quindicina di consiglieri che possiamo considerare come popolari,

privi cioè, almeno in apparenza, di stretti collegamenti con l’oligarchia

dei notabili; ma di questi uno solo partecipava con una certa regolarità

alle riunioni del consiglio privato, mentre tutti gli altri intervenivano

esclusivamente in occasione delle rare convocazioni plenarie, e neppure

a tutte.

È vero che gli statuti ponevano precisi limiti all’autonomia della mi-

nor credenza; non mancavano, tuttavia, i modi per aggirarli. Anch’es-

sa, al pari del Maggior Consiglio, non poteva riunirsi se non in pre-

senza di un rappresentante dell’amministrazione ducale, ciò che avreb-

be dovuto garantire un certo controllo dall’esterno: ma dal 1499 al 1533

giudice di Torino fu ininterrottamente Ribaldino Beccuti signore di

Lucento, il più ricco e influente fra i membri dell’oligarchia torinese,

pronipote di quel Ribaldino che aveva avuto una posizione di spicco

nella Torino del primo Quattrocento; e proprio in presenza del giudi-

ce si riunì abitualmente in quegli anni il minor consiglio, vanificando

di fatto qualunque possibilità di un controllo realmente al di sopra del-

le parti. Gli statuti regolamentavano inoltre ciò che poteva essere de-

ciso senza consultare la maggior credenza, così che almeno in teoria