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Come filosofo, porrei il problema in termini più gene–
rali di quelli nei quali è stato posto dagli altri parte–
cipanti. Ciò che Peccei ha detto, ad esempio, equivale
a constatare che la nostra cultura non è abbastanza
organizzata cioè industrializzata o programmata: non
ci sono sufficienti mezzi di comunicazione e di diffu–
sione, l'università è in gran parte antiquata e la ricerca
scientifica non ha presso di noi l'efficienza che ha rag–
giunto in altri paesi. Si può essere d'accordo (ed io
sono d'accordo) su questa constatazione; ma ancora
rimane il problema del rapporto tra cultura e città in–
dustriale cioè circa le possibilità di cultura che una
città industriale oggi può offrire.
Su questo problema dirò subito la mia opinione: non
esistono oggi possibilità di cultura fuori della civiltà
industriale (comunque sia politicamente organizzata od
intesa) e perciò delle città in cui questa civiltà vive e
prospera.
Occasioni di cultura
Ricorderò che la filosofia ha avuto inizio, nel mondo
occidentale a Mileto, nell'Asia minore: Mileto era un
grande porto del tempo, simile a quello che può essere
oggi Genova o Marsiglia. La massima fioritura della
cultura greca si ebbe in Atene, dopo le guerre persiane,
quando la città divenne un grande centro di scambi,
di traffici e di attività varie e in essa affluivano genti
di tutte le nazioni.
In
generale, le grandi occasioni di
cultura nascono là dove il lavoro e le attività umane ,
che contribuiscono al benessere comune, fanno affluire
un gran numero di persone diverse per tradizioni, cre–
denze, atteggiamenti e opinioni. Questa diversità susci–
ta l'interesse, stimola il confronto, provoca contrasti e
polemiche, ispira positivamente o negativamente l'uo–
mo di cultura sia esso scienziato, tecnico, poeta o filo–
sofo e lo mette in grado di avere il suo pubblico, di
vedere la sua opera apprezzata o respinta e di impe–
gnarlo nell'opera stessa, perché nessun uomo di cul–
tura vuole essere una voce nel deserto.
Dirò dunque francamente, e senza tanti scrupoli (per–
ché sono completamente fuori di ogni organizzazione
industriale) che, oggi come oggi, solo le grandi città
industriali offrono all'uomo di cultura la materia pri–
ma e l'ispirazione per il suo lavoro.
Ma con questo non intendo dire che la civiltà indu–
striale sia priva di difetti e non abbia i suoi malanni.
La civiltà industriale
Essa è la sola che, a quanto sappiamo, è in grado di
sopperire ai bisogni del genere umano, di farlo soprav–
vivere nel maggior numero possibile dei suoi indivi–
dui e di produrre benessere. Tutto questo, natural–
mente si paga, perché ogni cosa, in questo mondo, si
paga in un modo o nell'altro. Il benessere stesso ha i
suoi svantaggi e tutti siamo al corrente delle perdite
dolorose che la civiltà industriale produce in tutti i
paesi in cui attechisce: perdita dei valori tradizionali,
minacce a istituzioni venerande che rischiano di andare
in pezzi, sbandamenti, alienazioni, crisi individuali e
collettive sono alcune di queste perdite. Direi però
che esse stesse possono essere conosciute e denunciate
solo da chi ci sta dentro.
Se anche si prende per buona tutta la vasta letteratur:l
che esiste sui mali della civiltà industriale e si dà cre–
dito alla voce dei peggiori profeti di sciagure che an–
nunciano la fine del mondo o qualcosa di simile, si
deve riconoscere che questa stessa letteratura nasce neì
seno della civiltà industriale la quale, attraverso di
essa, prende coscienza dei suoi limiti, dei suoi difetti,
delle sue illusioni, ma perciò anche dei problemi che
possono e debbono essere affrontati con spirito po–
sitivo.
Non parlerò della scienza e della tecnica perché il rap–
porto di queste attività con la civiltà industriale
è
fuori
discussione. Ma la letteratura, il romanzo, l'arte tro–
vano oggi la loro ispirazione e le loro dimensioni di
libertà proprio nel clima che la civiltà industriale ha
creato. L'impegno dell'arte in forme espressive asso–
lutamente diverse da quelle tradizionali è condizionato
da quello stesso spirito di ricerca e di innovazione che
anima questa civiltà e viene incontro alla molteplicità
delle tendenze e delle esigenze che essa suscita e man–
tiene. Questo certo non garantisce la validità di tutti i
suoi prodotti, ma ne chiarisce la genesi. Il romanzo,
il
teatro e il cinema che si rivolgono oggi di prefe–
renza a descrivere o a presentare situazioni umane scon–
certanti, disgraziate e perfino ripugnanti, non possono
essere semplicemente interpretati come compiacenze
morbose: sono anche denunce o diagnosi e, in quello
che hanno di riuscito e di positivo sono prodotti ca–
ratteristici della civiltà in cui viviamo.
Bisogna poi ricordare un teorema ben stabilito che
psicologi, antropologi e sociologi tengono sempre pre–
sente: quello della molteplicità ed eterogeneità delle
reazioni umane. Di fronte a una stessa situazione (rea–
le o rappresentata), queste reazioni possono essere .di–
versissime. Si possono senza dubbio trovare
costantz
statistiche di queste reazioni in quanto sono conside–
rate su scala numerica altissima; ma queste stesse co–
stanti mutano con il tempo. Ad esempio, di fronte a
una scena di violenza uno spettatore può essere inco–
raggiato alla violenza e l'altro può esserne disgustato;
e sonQ possibili tutti i gradi intermedi tra questi due
estremi .
Se vogliamo giudicare la civiltà industriale nei suoi
rapporti con la cultura, dobbiamo tener conto di que–
sto teorema. La civiltà industriale può senza dubbio
produrre il conformismo ma può produrre e produce
anche la denuncia di esso, la protesta contro
di
esso
e molte vie stravaganti o non stravaganti per evaderne.
La civiltà industriale è la civiltà delle macchine, sem–
bra far poco conto dei valori spirituali e in generale di
tutto ciò che non rientra nei freddi calcoli della produ–
zione industriale.
Ma proprio per questo può far sentire più vivamente
il
bisogno di quei valori e l'esigenza di una vita spi–
rituale più intensa.
La civiltà industriale è impersonale: i rapporti che
instaura fra gli uomini nei vari campi del lavoro sono
fondati unicamente sull'efficienza e il rendimento degli
individui singoli. Ma proprio per questo può far sentire
più vivamente l'esigenza d'uscire dalla «folla solita–
ria
»
e di cercare e mantenere tra uomini rapporti più
umani, di amicizia e di amore. Si tratta certo di possi–
bilità, non di necessità: di possibilità che sta agli
uomini riconoscere e realizzare. L'idea di un progresso
sicuro e infallibile è oggi molto screditata; ma altret–
tanto arbitraria e infondata sarebbe quella di un re–
gresso inevitabile.
In
tutti i casi, con
i
suoi aspetti pOSltlVl e i suoi
aspetti negativi, la società industriale offre oggi agli
uomini di cultura di tutti i campi possibilità di lavoro,
di meditazione, di creazione che forse non sono mai
state così ricche nella storia del genere umano. Giac–
chè, come si è detto, non solo i beni ma anche i mali
possono essere occasioni di cultura.
A nton'cell' :
' ..•quando par"afno
di
c lI'tura n e lla città
indtlstria'e
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q u ale t . po di c ultura
d eve e spr'Ule r e
una Ule tropol'
c h e
è
total': :ata da'
lav oro di fabbr'ca "
Farò alcune osservazioni spicciole, quasi per chiarire
le cose a me stesso.
Il sindaco ha citato con molto gusto tre libri impor–
tanti, vorrei dire esemplari: il Thovez, il Gobetti e
il Burzio.
Nelle frasi che ha citato c'è un punto esatto su cui si
dovrebbe forse attivare la discussione.
Thovez che si lamenta che Torino è una Beozia. Si la–
mentava per altre cose, ma specialmente per questa
specie di appartatezza, questa mancanza di circolazione
nazionale, questo senso di troppa riservatezza della
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