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città. Appunto, la Beozia rispetto alla Grecia intera .

(Dirò tra parentesi che Thovez era uomo superbo, al–

tero, dico culturalmente superbo. Lo era nella poesia,

nella critica letteraria e lo è anche qui, in questo bel–

lissimo capitolo

sull'Augusta Taurinorum).

Ma come

sembra che egli intenda la cultura?

Mi sembra che la intenda proprio in quella forma di

diritto riservato a una certa classe di persone, direi

che la intende come un certo giorno la intese l'indu–

striale Gualino, vale a dire sempre in una forma di cul–

tura di

élite:

«facciamo il più bel teatro, facciamo ve–

nire le migliori compagnie, facciamo sentire cose che

nessuno ha mai sentito, mettiamo Torino a contatto

dell'Europa... ». La cosa non soltanto per altri motivi,

ma essenzialmente per questo, era destinata a fallire.

Perché? Perché era un campione, un tentativo di

élite.

Mentre, nelle altre citazioni fatte di Gobetti e di Bur–

zio, vediamo che essi parlano di cultura nel senso più

generale (alla tedesca) di civiltà. Quando ha lodato

Torino perché città industriale e si è consolato del

perduto prestigio di capitale, Gobetti, ancora più di

Burzio, diceva: «chi deve creare la civiltà? Il mondo

industriale, il mondo del lavoro» e per dirlo in ter–

mini socialmente più precisi, l'operaio. L'operaio

doveva esprimere la propria civiltà.

" punto esatto

Il punto esatto consiste nel dire di quale cultura vo–

gliamo parlare. Si dice che Torino ha creato una ci–

viltà, però chi l'ha creata? quali gruppi? con quale in–

dipendenza? con quale rapporto con la città operaia?

Secondo me è importante definire quale tipo di cul–

tura deve esprimere una città che è totalizzata dal la·

voro di fabbrica.

Si possono opporre le culture a carattere universitario

alle culture meno specialistiche della comunità citta–

dina? Questo è il tema. Perché è chiaro che la cultura

universitaria ha delle sue esigenze e quanto più alta

sarà quella cultura, tanto più influirà proficuamente su

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«Nel mondo di oggi esistono all'incirca

ottomila quotidiani,

con trecento milioni di copie giornaliere di tiratura,

ai quali bisogna aggiungere duecento milioni di copie

di riviste senza contare i libri

(il boom dei

tascabili,

per esempio)

e l'altra stampa»

quella della comunità che noi vogliamo avere. Quando

parliamo di cultura nella città industriale, secondo me

dobbiamo capire bene questo: è la cultura che

la

stessà

città operaia deve esprimere dal suo seno, e cioè un

nuovo tipo di cultura. Quale potrà essere questo nuo–

vo tipo di cultura?

Oramai, lo sanno tutti , si parla di umanesimo in un

senso molto diverso di un tempo. Umanesimo oggi

implica non solo letteratura, storia, scienze morali, filo–

sofia, quegli studi insomma che si definiscono classici,

ma anche tecnica, scienza e tecnologia, tutte quelle di–

scipline che sono nuove oggi: per esempio la stess.l

sociologia, che Croce ripudiava, oggi è assunta nel–

l'ambito maggiore di cultura umanistica.

Vorrei fare ancora una distinzione. Quando parliamo

di una città industriale, come ha detto gius tamente

il

sindaco, intendiamo specialmente Torino . Però qui,

direi, stiamoci attenti.

Quando diciamo Torino, diciamo un campione molto

singolare di città industriale. Anzi un campione unico

di città industriale con i suoi pregi e i suoi difetti. Se

noi vediamo un po' addentro le cose - e vi parlo

con una piccola esperienza di uomo che si è occupato

qualche volta di organizzare delle società culturali -

notiamo che le molte difficoltà che incontriamo a To–

rino sono diverse, per esempio, da quelle di Milano.

Milano ha avuto meno forze di cultura accentrate e

ha avuto più possibilità di cultura decentrata, perché

le industrie non sono cosÌ dominanti come nella no–

stra città, dove per esempio la Fiat condiziona da tre

a quattrocentomila cittadini torinesi. Quindi quando si

parla di Torino come città industriale bisogna pensare

a quel tipo particolare di città che essa rappresenta,

un tipo, come ho detto, veramente unico.

Riprendendo i discorsi dei due amici che mi hanno

preceduto : quello che ha detto Abbagnano lo trovo

esattissimo perché oggi soltanto in una città forte–

mente industriale si può fare cultura in ambedue

i

sensi. In quella elevata e doverosa degli strumenti par–

ticolari e specialistici della cultura e quella dell'allar–

gamento culturale di tutta

la

comunità civica. lo credo

in questo senso, senza voler approfondire

il

lato poli–

tico della cosa, che le regioni potranno molto aiutare,

perché creando interessi molto più stretti avranno in–

fluenza grandissima sulla costruzione di un ben deter–

minato ambiente culturale . Riferendomi a quanto ha

detto Peccei, debbo dire che dal punto di vista degli

appunti negativi non poteva essere più acuto e pre–

ciso, specialmente là dove ha deplorato il modesto,

l'addirittura carente sistema di informazioni. Ha detto

giustamente che la prima cultura è l'informazione

e questa è una cosa che nella nostra città ci tocca molto

da vicino.

L'informazione strumento di cultura

Si tratta anzitutto di un problema generale. Spesso, per

esempio, si critica questo o quel programma della ra–

dio o della televisione; io dico che dovremmo soprat–

tutto badare a che obbedissero sempre al mandato dì

informare.

In questo modo assolverebbero già in gran parte al

loro proposito di far cultura; perché quando si tratta

di vere informazioni, queste sono sempre critiche e co–

stituiscono perciò un grosso strumento culturale.

Vi è un secondo aspetto dell'intervento di Peccei. A

Torino, com'è noto, vi è un giornale unico che do–

mina e in questo è il suo pregio e anche il suo difetto.

Ma vi è un difetto ch'esso condivide con tutti i gior–

nali delle altre città, cioè di mancare di approfondi–

mento degli interessi civici, dei problemi della città.

Ne racconta le cronache, non imposta e non sviluppa

i problemi cittadini.

Il terzo aspetto indicato di Peccei è il gigantismo che,

in realtà, è una forma di diffusione di un tumore molto

grave. Chi può rispondere bene è Einaudi, che insieme

con la Utet e con la Sei ha una grossissima organizza–

zione di cultura. Ho una grande considerazione della

Utet, ma è chiaro che non si può chiamarla un'azienda

popolare, che faccia dei libri popolari. Forse Einaudi

può dire in che modo risolvere il contatto dell'edito–

ria con la città, cosÌ da aiutare questa a crearsi i propri

strumenti culturali.