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ittà a sviluppo industriale

storia è un processo, certo, irreversibile:

non per questo diventa meno impreve–

dibile; perciò ci interessa, ci impegna, ci

sfida. Attenzione dunque alle pillole tran–

quillanti distribuite da coloro che in un

qualsiasi dibattito sul futuro di

questa

cultura - questa di oggi, questa di To–

rino, città industriale come tante odierne

città industriali, ma benissimo individua–

ta nella storia e nella tradizione sua -

si accontentano di proporre che il « nuo–

vo» nasca da un più razionale sfrutta–

mento dei « mezzi tecnici» (e magari dei

computers)

che ci devono dare il senso

di quello che questa società

chiede,

nel

campo della cultura, proprio come, con

gli stessi strumenti, con le stesse calco–

latrici, impareremo verso quali dei cor–

renti prodotti si va orientando il consu–

matore d'oggetti. Non mi appaga questa

trasposizione del

marketing

dalla zona

commerciale alla

zona ricerche

(questo

è la cultura!).

Esser meglio se stessi

Vi sono grandi costruzioni collettive, co–

struzioni « di massa », se volete, che non

son firmate: il linguaggio (come

il

« buon

gusto») non è firmato , nè hanno firma

certe canzoni o architetture o figurazioni

popolari. Eppure esse non hanno che una

sola ragione per viver nella storia: quella

di esser originali, impreviste, o se si vuo–

le «sorprendenti ». Quindi

individuali,

nel momento stesso che son frutto d'un

immenso sforzo collettivo.

Torino, « capitale industriale », come l'ha

definita or non è molto un acuto saggi–

sta, in un'Italia non ancora integral–

mente industrializzata (e certamente non

tutta industrializzabile) ha operato qual–

che cosa per innovare, nel contesto di

questa

civiltà, di questi «tempi moder–

ni» (uso tale termine nel senso dolce–

amaro, a tutti noto, che s'affaccia attra–

verso

il

titolo e il messaggio d'un gran–

de capolavoro cinematografico, sia pur

leggermente invecchiato). Torino può

pretendere ancora di

innovare,

di

per–

correre una sua via, può invitare coloro

che s'inseriscono nel suo tessuto cultu–

rale a

esser meglio se stessi,

per citare

la classica espressione d'un figlio del Pie–

monte, Vittorio Alfieri? Credo di sì.

Si ·dice - ce lo insegnano i colleghi stu–

diosi di economia, di statistica, di socio–

logia - che Torino ha « assorbito» una

ingente cifra di immigrati, provenienti

dalle zone più depresse della nostra pe–

nisola, specie nell'ultimo quindicennio.

Ho presente un notevole studio svolto

dall'Ires su questo tema, cioè su «Im–

migrazione di massa e struttura sociale

in Piemonte », per conto dell'Unione

delle province piemontesi, e per il pia–

no

di

sviluppo del Piemonte. Ho la netta

sensazione che questo studio inviti a con–

clusioni relativamente ottimistiche: l'as–

sorbimento ha avuto i suoi momenti più

critici, sotto l'aspetto culturale e di co–

stume, che qui massimamente ci interes–

sa, negli anni della prima «ondata », e

fors'anche in quelli, così drammatici, del–

l'esaurirsi del

boom

degli anni cinquanta,

negli anni che chiamerei del «riflusso ».

Ma sin dal '63 - che fu appunto un

anno amaro - Giorgio Bocca scriveva:

«

Nella Torino del

'63

non esiste più una

ceinture rouge ,

i borghi operai sono

scomparsi... Oggi i quartieri di San Pao–

lo, di Nichelino, Vanchiglia, Nizza, Mi-

lano e Dora sono i quartieri di una città

del benessere che vuole ceti mescolati e

omogenei. Poi ci sono i quartieri nuovi

in direzione di Mirafiori, Rivoli, Venaria:

palazzi di otto, nove piani, solidi, ben

finiti ... e grandi strade rettilinee verso il

gelo delle Alpi

».

Le "fortezze" della cu Itu ra

Ottimistico? Un tantino, forse : ma lo

stesso autore accentuava pure gli aspetti

negativi della corsa al benessere, all'« im–

borghesimento », e giungeva ad accusare

le «fortezze» della cultura torinese

qualche casa editrice d'avanguardia, qual–

che associazione culturale, e lo stesso

mondo universitario - di rinchiudersi

in altrettante «isole », di non conoscer

l'arte della piena «apertura », del più

libero e fecondo interscambio. Giungeva

a dire che a Torino esiste un «autole–

sionismo culturale ». Flagellava una cer–

ta austerità monastica, « tibetana» degli

intellettuali torinesi, attribuendo questa

frase singolare ad Italo Calvino: «A

Torino si lavora, a teatro si va a Pa–

rigi ». Senonché, sulle vie d'uscita da

siffatte strettoie molto è stato già detto

nel dibattito al quale si connette

il

mio

breve intervento. Non occorre insistervi

più oltre.

Preferirei, per concludere, riferirmi al–

l'inchiesta di un giovane sociologo, pub–

blicata presso le «Edizioni Avanti» nel

1965, con il titolo di « Alienazione e

anomia nella grande industria. Una ri–

cerca sui lavoratori dell'automobile ».

L'autore considera la Fiat come «la più

coerente espressione della fase" neocapi–

talistica" in Italia », e considera fallito

il tentativo di «liquidare la coscienza di

classe e inquadrare i lavoratori nello sche–

ma del sistema ideologico vigente ». Cosa

sia alienazione, cosa siano l'anomia ed i

metodi per indagare sugli atteggiamenti

psico-sociali dei lavoratori sui quali in–

daga, non glielo hanno soltanto inse–

gnato i suoi maestri (Marx, Max Weber,

Karl Mannheim, Erich Fromm, ecc.):

c'è un'anima protestataria che lo muove

alla ricerca, e c'è amore di cultura, di

cultura aperta a tutti. Anche chi muove,

come io muovo, da premesse diverse,

prova rispetto

di

fronte a queste inda–

gini. Non avremo mai meditato abba–

stanza sulle responsabilità, sui rischi im–

mensi della civiltà tecnologica, del con–

sumismo e dell'autoritarismo tecnocra–

tico.

A Torino, città avanzata industrialmente,

questi sono problemi di fondo.

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