

le cose che si pensarono e si tentarono
in quegli anni, astratto. Presupponeva
che nella storia del nostro paese fosse
avvenuto un salto qualitativo, una rina–
scita; e invece era stata soltanto rimar–
ginata una ferita mortale nel vecchio
corpo, che non era sostanzialmente mu–
tato, della società italiana. L'Unione cul–
turale si trasformò insensibilmente, per
forza di cose, indipendentemente dalle
buone intenzioni dei suoi promotori, in
una società di conferenze che tenne viva
in tempi inquieti una cultura d'opposi–
zione, non conformista, che cercava at–
traverso lo studio della storia di prender
coscienza degli enormi problemi non ri–
solti cui si trovava di fronte la società
italiana in trasformazione. Ma rimase una
società di intellettuali per intellettuali,
o per aspiranti tali.
Per trovare un pubblico nuovo bisognava
andarlo a cercare in periferia, non chia–
marlo ma andargli incontro. Lo scopo
principale del Centro popolare del libro,
che nacque intorno al 1950, ed ebbe la
sua sede centrale e la sua biblioteca
presso la Camera del Lavoro, era quel–
lo di diffondere
il
gusto della lettura e
la conoscenza di nuovi libri tra gli ope–
rai, attraverso conferenze, lezioni, recen–
sioni parlate. Le intenzioni erano buone,
ma i mezzi furono sempre molto scarsi.
La buona volontà di pochi naufragò, an-
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che allora, come sempre, in mezzo al–
l'indifferenza dei più. Inoltre, se la via
era giusta ,
il
momen to era prematuro sia
rispetto alla coscienza della necessità di
battere quella strada sia rispetto alle
condizioni oggettive : l'iniziativa del Cen–
tro del libro an ticipò di alcuni anni la
produzione del libro economico, che
è
uno dei tipici prodotti di una società in–
dustriale avanzata. Il Centro fu, in un
tempo in cui si andavano sempre più
estendendo potenti mezzi di cultura di
massa, una fragile impresa artigianale,
inadeguata, discontinua, senza una reale
efficacia. A me personalmente servi per
farmi toccare con mano la insufficienza,
la povertà delle nostre istituzioni cultu–
rali pubbliche e private, l'arretratezza
delle nostre convinzioni di intellettuali
appartenen ti al mondo ufficiale della cul–
tura cosiddetta superiore.
Gli anni della «Consulta» furono per
me e per i non molti amici che le die–
dero vita un periodo di raccoglimento.
La nuova associazione fu di proposito
non un'associazione di cultura generale
ma di cultura politica. Pur essendo aper–
ta alla discussione di tutte le idee, i suoi
principi ispiratori erano quelli - desti–
nati ad essere sempre minoritari nel no–
stro paese - del radicalismo democra–
tico laico. Svolse la sua attività più in–
tensa tra la fine del primo decennio dopo
la liberazione - fine dello stalinismo,
deflu sso della guerra fredda, speranza di
nuove aperture - e l'inizio del nuovo
corso della politica italiana con la par–
tecipazione dei socialisti al governo. Fu
un'associazione di pochi eletti che non
aveva la possibilità e neppure, a dir la
verità, la pretesa, di fare proseliti. Par–
lavamo a noi stessi e a pochi altri che
erano già potenzialmente con noi. In que–
sta storia un po' idealizzata che sto ri–
costruendo a grandi tratti, la Consulta
rappresentò bene un periodo di transi–
zione tra le illusioni cadute e qualche
speranza ritornante, un momento di ri–
flessione critica in attesa di tempi miglio–
ri. Come fatto culturale, fu molto limi–
tato e contribuì ad accrescere in me il
senso d'impotenza di una cultura impe–
gnata ma isolata , l'impressione di un
privilegio non più riconosciuto e quindi
tendenzialmente illegittimo, di un presti–
gio ormai consumato.
I fatti del luglio 1960 diedero un inaspet–
tato vigore al Circolo della Resistenza,
nato da un anno. Di fronte a una mi–
nacciata crisi delle istituzioni, il richiamo
alla Resistenza fungeva da indispensabile
principio di legittimazione della Costitu–
zione e del regime democratico che ne
era derivato. Per iniziativa di Franco
Antonicelli, nella primavera del '60 si
era svolto al Teatro Alfieri di fronte a
una folla inconsueta il primo ciclo di le–
zioni con testimonianze sulla storia degli
ultimi trent'anni. Fu un avvenimento
culturale nuovo che ebbe la virtù di su–
scitare l'interesse di un pubblico vasto
e vario, composto non più di intellet–
tuali , ma di operai, di giovani, di gente
che forse non aveva mai messo piede in
una sala di conferenze. Al primo ciclo
ne seguirono altri. Sino a quando? Le
celebrazioni del '65 furono l'apogeo di
una tradizione commemorativa sempre
più esangue, e in esse la Resistenza eb–
be il suo epitaffio. La vecchia genera–
zione ripeteva se stessa. E intanto ne
era sorta una nuova che aveva la Resi–
stenza alle sue spalle, viveva nel pre–
sente dove resistenza voleva dire lotta
dei popoli coloniali contro il dominio
straniero, e stava elaborando nuovi mo–
delli per l'avvenire.
Quando l'anno scorso
il
Circolo della
Resistenza prese l'iniziativa col nuovo
presidente, Guido Quazza, di svolgere
un ciclo di lezioni sulle rivoluzioni nel
mondo contemporaneo,
il
pubblico, fol–
tissimo, era in gran parte nuovo.
Mi
resi
conto, senza alcun rimpianto, che noi
della nostra generazione non avevamo
più nulla da dire e che era ora di ti–
rarsi in disparte.
Edoardo Fadini
Il problema della cultura in una città
industriale
non
è
solo, evidentemente,
questione di istituzioni. Rientrano in es–
sa problemi di fondo della costituzione
e composizione stessa della società, istru–
zione, qualificazione del lavoro, circola–
zione del prodotto culturale, interazione
tra varie istituzioni, definizione e deli–
mitazione socio-politica della popolazio–
ne; la funzione delle istituzioni culturali
a carattere associazionistico; la loro in–
dipendenza costituzionale e loro legami
con gli ambienti cittadini, la loro influen–
za nello sviluppo generale dell'educazio–
ne « matura »; la loro funzione di rottura
nei confronti della stagnazione accade-