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Gianfranco de Bosio

Fare del teatro in una città industriale,

soprattutto fare del teatro non commer–

ciale, ma «pubblico

»,

nell'ambito cioè

di un'organizzazione come lo Stabile,

emanazione della Civica Amministrazio–

ne, è, a mio avviso, particolarmente sti–

molante. Infatti, ammesso che altrove sia

ancora possibile, in una città industriale,

dove i lavoratori costituiscono la netta

maggioranza, non esiste più alcuna pos–

sibilità di guardare al teatro come ad un

fatto riservato alle élites, come un lus–

so, o come un'evasione dalla realtà. Una

città come la nostra impone un rapporto

imperioso e allo stesso tempo naturale

con una società moderna in rapida evo–

luzione, intimamente legata ai problemi

del nostro tempo. Il teatro, di conseguen–

za, diventa uno strumento di rapporto

umano, immediato, e, in certo senso,

violento, partecipe di un discorso rigo–

rosamente contemporaneo. E questo, se

crea talune difficoltà, è un motivo di

incontestabile interesse.

Vero in generale, ciò lo è particolar–

mente riferito ad una città come Torino,

la cui fisionomia non solo è industriale,

ma

prevalentemente

industriale e quindi

in larga misura estranea a quella effer–

vescenza che si accompagna sempre al

fiorire delle attività commerciali, al cli–

ma che queste ultime determinano, clima

festoso, talora addirittura di vacanza, con

tutto ciò che la cosa significa in bene ed

in male. Particolarmente vero in una cit–

tà dove chi opera nel campo culturale,

e nel teatro in specie, non ha possibilità

di sottrarsi ai suoi compiti, di sfuggire

cioè al rapporto con quella che è la po–

polazione autentica della città. Per que–

sto Torino è una città che non consente

illusioni, ma allo stesso tempo è una

città in cui i risultati, conseguiti forse

più lentamente che altrove, hanno una

vera consistenza e un'autentica durata.

Impegno severo

L'impegno severo che la città impone,

fa risaltare la pericolosità delle iniziative

sporadiche e disorganiche: nessuno è

tanto forte da imporsi da solo, soprat–

tutto nel campo culturale, per cui, qui

più che altrove, si avverte, come fatto

essenziale, la necessità, destinata ad af–

fermarsi sempre più nel mondo moder–

no, di un collegamento stretto e di una

collaborazione fra tutti coloro che ope–

rano nel campo culturale. Questo rap–

porto tra gli organismi culturali torinesi

è uno degli obiettivi che da tempo lo

Stabile si è posto.

Città industriale significa anche orari mol–

to rigorosi, estese zone periferiche, lon–

tane dai tradizionali centri culturali e di

spettacolo. Ne consegue che fare del tea–

tro a Torino richiede la soluzione di pro–

blemi d'ordine pratico molto importanti.

Occorre ad esempio far rientrare

il

pub–

blico a casa entro certe ore e non co–

stringerlo a spostamenti eccessivamente

lunghi e faticosi. E qui sfioriamo un te–

ma che con

il

passare degli anni si rivela

sempre più urgente, quello delle sale de–

centrate, di una più completa ed adeguata

attrezzatu,ra di locali in tutta la città, si

da consentire al teatro di diventare fa–

cilmente raggiungibile da tutta la popo–

lazione, indipendentemente dal quartiere

di residenza e dagli orari di lavoro.

Ho parlato prima di collaborazione tra

gli enti culturali. Debbo aggiungere che

tale collaborazione è importante, ma non

sufficiente, dato il carattere della città, se

manca la collaborazione dell'industria, dei

sindacati, dei circoli ricreativi ed in gene–

re di quelle organizzazioni cui fanno ca–

po i lavoratori, cioè il nostro pubblico

vero e per il quale dobbiamo lavorare.

Questa collaborazione abbiamo già otte–

nuta in una discreta misura; ci auguria–

mo di estenderla sempre più. Quando

questo problema sarà risolto, ritengo che

un passo essenziale nella direzione di una

vita culturale vera nell'ambito della città

industriale sarà stato compiuto.

Norberto Bobbio

Preferisco parlare della mia esperienza

personale, dal momento che in questi

vent'anni dopo la Liberazione, dal 1945

al 1965 (il ciclo della mia generazione

sta per finire, o è già finito: è ormai un

ciclo chiuso) ho avuto occasione di par–

tecipare personalmente, nella nostra cit–

tà, a quattro attività culturali extra-acca–

demiche, durate all'incirca cinque anni

ciascuna: l'Unione culturale (prima ma–

niera), il Centro del libro popolare, la

Consulta e il Circolo della Resistenza.

Mi pare che ognuna di queste fasi cor–

risponda abbastanza bene - se pure con

una certa forzatura schematica - allo

sviluppo di una situazione oggettiva.

L'Unione culturale nacque nel clima di

tensione morale seguìto alla Resistenza.

Ma fu una tensione di breve durata :

l'istituzione (parlo della sua prima incar–

nazione) visse a lungo ma negli ultimi

anni (prima della recente e fortunata ri–

presa) sopravvisse a se stessa. Nacque col

proposito, o con l'illusione, di rompere

la tradizionale barriera tra intellettuali e

classi popolari, di parlare a un pubblico

nuovo, maturato nella lotta contro il fa–

scismo, diventato padrone del proprio

avvenire, di cancellare ad un tratto la

separazione tra cultura accademica e cul–

tura militante, tra creazione e divulga–

zione, tra avanguardia e tradizione. Fu

un. programma gene.roso, ma come tutte