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PORTICI E GALLERIE A TORINO

tiluomini e passava, non di rado, il ^occhio dorato

di qualche facoltosa patrizia. Nè va dimenticato che,

durante il memorabile assedio del 1706, il Beato

Sebastiano Valfrè aveva fatto improvvisare sulla

piazza un altare, intorno a cui s’affollavano ogni

giorno i cittadini e la truppa del Presidio, raccolti

in fervida preghiera.

Più tardi, vi fu un periodo nel quale la sistema­

zione dei portici pare abbia occupato non poco le

menti del Consiglio comunale, secondo c’informa

l’abate Baruffi che, discorrendone nel 1860, ram­

mentava come «tra i progetti ideati per abbellire

piazza San Carlo» vi fosse quello d'impiantarvi

«uno speciale mercato dei fiori ». E, quanto ai due

porticati, ch’egli giudicava «forse i più spaziosi che

abbiansi in Europa » (lunghi 150 metri, larghi sette

metri e mezzo) riferiva la proposta, ventilata in

Municipio, di «trasformarli entrambi nel Panteon

degli illustri subalpini ». Per conto suo il Baruffi

trovava che alla piazza mancavano «due fontanelle

e magari quattro grandi alberi nei quattro angoli ».

Tutte cose che, per fortuna, rimasero nella volonte­

rosa fantasia dei proponenti.

* * *

Non v ’è Guida 0 vecchia descrizione della piazza

San Carlo, che non la metta a confronto con quella

di San Marco a Venezia. Due bellezze di stile e

fàscino diversi; in comune: la possibilità, per la

simmetrica linea architettonica, di paragonarle a due

favolosi saloni cui fa da soffitto il cielo. Si notarono

le poco differenti dimensioni: 175 metri di lunghezza

per 82 di larghezza massima nella piazza veneziana;

167 metri per 75 nel rettangolo della piazza torinese.

La quale, se per esigenze di traffico non potrebbe

più chiudersi, oggi, a recinto di cerimonie e tratte­

nimenti, in altre epoche, e massime sulla metà del

secolo scorso, fu sede di grandiosi tornei e raduni

d’arte, dalla famosa giostra organizzata nel marzo

1842 in occasione delle nozze di Vittorio Emanuele II

con l 'Arciduchessa d’Austria Maria Adelaide, ai con­

certi vocali e strumentali con cui, talvolta, si festeg­

giava la ricorrenza dello Statuto. Per uno di questi

concerti — nel maggio del 1857 — si raccolse un

imponente coro di trecento voci e l'anno appresso

a cinquecento saliva il ninnerò dei coristi «tra pro­

fessori, dilettanti e allievi scelti nelle varie scuole

di canto di Torino ». Serate e audizioni d'un effetto

senza dubbio prestigioso.

Ma, per passare ad altri portici, non meno splen­

dido doveva essere il quadro offerto dalla via Po

quando s'illuminava tutta in segno di letizia per le

nozze di Reali Principi. Torceri e candelabri ad ogni

colonna; cordoni di lampade agli architravi; filari di

fiamme vive, capricciosamente intrecciati e svolti da

una parte all’altra della strada. E una visione d’altro

genere, ma sempre stupenda, doveva presentare

quando v ’infuriavano, con le loro gioconde coreo­

grafie, que’ Carnevali improntati a sfarzo eccezio­

nale e traboccanti di riuscite intenzioni allegoriche,

i quali, sebbene tramontati da alcuni anni, si rara*

mentano e si rammenteranno come una fra le più

tipiche tradizioni torinesi.

La contrada di Po, a uniformi edifìci «con alti

portici tirati a livello », lunga 704 metri, larga 30

compresi i portici, spaziosa abbastanza da passarvi

«comodamente nove carrozze, di fronte » era stata

aperta nel 1674, su progetto dell’architetto conte

Amedeo di Castellamonte, per iniziativa di Carlo

Emanuele I I .I lavori durarono nove lustri. Nel 1720,

regnando Vittorio Amedeo II, la via veniva final­

mente condotta a termine, senza però i terrazzi

sorretti da archi che congiungono le

isole

sul lato

sinistro. I terrazzi furono costruiti circa un secolo

più tardi, per ordine di Vittorio Emanuele I; si

creava così, dalla Reggia fino al Po, una ininterrotta

linea di portici di 1250 metri, la più estesa, tuttora,

che abbiamo a Torino.

• * *

Procediamo. Nel 1716 Vittorio Amedeo II faceva

innalzare, su disegno di Filippo Juvara, le caserme

di San Celso e di San Daniele, che si fronteggiano

agli angoli di via del Carmine col corso Valdocco:

due monumentali edifici con portici d ’architettura

dorica. Queste caserme, per valore artistico e per

novità di razionali sistemazioni interne, godettero a

lungo d ’un incontestabile primato fra gli alloggia­

menti militari dei maggiori Stati europei. Erano

ancora quartieri durante la Grande Guerra. Vi risie*

deva il Distretto e di lì si può dire che passarono

tutti i torinesi, di nascita o di elezione, chiamati

alle armi nell’incandescente periodo fra il 1915

il ’i8.

Del Juvara sono pure i portici costruiti nel primo

ventennio de! '700 in quella specie di largo ovt

sbocca la via Milano e che fa un po’ da anticamera

all’ottagonale piazza Emanuele Filiberto eretta quasi

un secolo dopo, nel 1814, su disegno dell’architetto

Gaetano Lombardi. Il largo coi portici del celebri

messinese, si chiamò, per qualche tempo, piazza Mi»

lano e s'adornava, sulla metà del secolo scorso

d’una • fontana o vasca, sostenuta da delfini fe

bronzo » per usar le precise parole con cui la segna»

lavano Stefani e Mondo nella loro Guida del 1851

Sino a pochi anni or sono fu la sede pittoresca «

animatissima delle tettoie e baracche di

trasferitesi poi in decorose botteghe delle vie '

Ora il tratto settecentesco fa tu tt’uno con la

piazza detta comunemente di Porta Palazzo,

197 metri per 194, mercato massimo di Torino, *

mensa stazione di smistamento dei prodotti orti

frutticoli e floreali, della piscicultura e palliai

con provenienza da ogni paese del contado e

zone specializzate delle attigue regioni.

E siamo ad accennare, di sfuggita, ai

di piazza Palazzo di Città, edificati nel 1736 su

getto dell’architetto conte Benedetto Alfieri.