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PORTICI E GALLERIE A TORINO

circondano l’antica area già occupata dalla piazza

delle Erbe, località che pur in tempi remoti assu­

meva nobile importanza, se c’è qualcosa di vero

nella tradizione a detta della quale al termine del­

l'odierna via Palazzo di Città, e più esattamente ove

sorgeva l ’arco della

volta rossa,

era in passato un

palazzo appartenuto ad Amedeo VI e ad Amedeo VII,

ultimi Conti di Savoia. E un altro edifìcio, abitato

da Ludovico Principe di Piemonte, è voce che esi­

stesse nella laterale via de’ Pasticcieri, ora via

Berchet. I portici della piazza, nonostante il distacco

d’oltre un secolo, armonizzano bene con quelli sei­

centeschi della facciata del Civico Palazzo, a lor

volta frequentatissimi, non solo da quanti si recano

negli uffici comunali, ma anche da chi, per giungere

più presto in via Corte d’Appello, prende la scorcia­

toia del «cortile del burro », come, tuttora, vien

chiamato quello aperto a destra del cortile d ’onore.

Superfluo avvertire che la denominazione «del burro »

trae origine dal mercato chc in altre cpochc vi si

teneva; ma non molti sanno che questo secondo cor­

tile del Municipio era detto anche di San Benigno

— c ’informa il Borbonese nella sua Guida del 1884 —

«da un’omonima chiesa che ivi esisteva ».

• * *

Eccoci alla piazza torinese generalmente creduta,

per area, la maggiore: quella che s’intitolava a Vit­

torio Emanuele I, dedicata, da tre lustri, a ricordare

la battaglia e il trionfo di Vittorio Veneto. Vera­

mente, nell’uso, non v ’è differenza: piazza Vittorio

si diceva prima e piazza Vittorio, per abbreviazione,

si continua a dire. Piazza

maggiore

per la sua posi­

zione a riva del Po, dinanzi al regale panorama della

collina, ma non per le dimensioni: sebbene — effetto

d’ottica o stregoneria di quell’abbacinante fondale —

abbia tratto in inganno più d’uno. «È forse la più

ampia d’Europa » scriveva nel 1869 il Baricco, la­

sciando capire che intanto la riteneva, senza forse,

la più ampia di Torino. Errore, perchè il primato,

quanto alla vastità, spetta alla piazza Castello,

lunga 225 metri per 166, mentre la piazza Vittorio

Veneto, lunga 324 metri, non ne ha che cento di

larghezza.

Fino al 1814 c’era

1

una distesa di terreno «quasi

incolto», scrive il Borbonese, solo tagliata «nel

mezzo, da un viale », che dalle ultime case di via Pò

conduceva al ponte. Per quel viale, provenendo dalla

strada di Moncalieri, reduce dall’esilio sardo, rientrò

nella sua capitale, dopo la Restaurazione del 1815,

Re Vittorio Emanuele I, <accolto con fragorose od

entusiastiche acclamazioni ddla folla, che voleva

baciargli le mani »rammenta, nd

Ricordi autobiogra­

fici d’tm Veterano,

il Generale Enrico Ddla Rocca,

Q quale aggiunge: «Vidi passare il Re sopra un

cavallino sardo, con la sua vecchia uniforme turchina

dd 1798, coi larghi risvolti man, il lungo panciotto,

i calzoni bianchi, gli stivaloni fino alle p»*»*»». il

cappello alla prussiana e la parrucca col codino che

gli sbatteva sulle spalle ».

La piazza fu iniziata nel 1825 su disegno dell’ar­

chitetto Giuseppe Frizzi di Lugano, e cinque anni

bastarono a completarla: si noti il semplice e geniale

espediente con cui, mercè il progressivo «digradare

dell’altezza delle case », si riuscì a nascondere in

qualche modo il dislivdlo di più che sette metri

fra l’estremità di via Po e la testa del ponte di pietra.

Or, chi crederebbe che quei portici, mèta prediletta

di festive passeggiate, furono a un pelo dal non

sorgere? Chi potrebbe pensare, oggi, piazza Vittorio

senza la màestosa linea di gallerie? Eppure, narra

il Baruffi, «poco mancò non venisse questa piazza

costrutta senza portid, per volere d ’alcuni edili, i

quali s’erano .proposti di edificarvi case per loro

conto ». E chi fu a tagliar corto a simili velleità,

impedendo le separate iniziative, che ci avrebber

regalato un discorde prospetto di facciate varie?

Fu il Re in persona: Carlo Felice, che alla chetichella,

senza avvertirne gli edili, accolse il disegno del Frizzi,

facendolo tosto metter in opera.

Un’altra circostanza merita ricordare a proposito

m

di questi portici. Nella casa posta all’angolo della

piazza con via Bonafous — casa appartenente allora

ai signori Caranti Suaut — una sera del marzo 1832

si faceva, dice un giornale dell’epoca, «il primo espe­

rimento in Torino di illuminazione a gas». Si può

immaginare la meraviglia dei dttadini dinanzi al.

fiammelle giallo-azzurre uscenti a ventaglio dai mi­

nuscoli beccucd. Apparvero rischiarati col nuovis­

simo sistema lo scalone della casa e la bottega di

caffè che aveva ingresso sotto i portid, trasformata

più tardi in una fabbrica di pianoforti. Fu tale l ’en­

tusiasmo del pubblico che Ù caffè, da quella sera

e fin che non si chiuse, fu chiamato comunemente:

«il caffè dd gas », anche quando il gas già era en­

trato in altri esercizi e in numerose abitazioni.

• • •

Per decreto di Carlo Felice s’apriva pure, nd

terzo decennio dell’Ottocento, la piazza che a lui

s’intitola e die inaugurò la sistemazione dd terreni

in quel quartiere di Porta Nuova che deve il nome

alla Porta ivi eretta nd 1620 «in .occasione ■reca

la Guida Derossi ■ dd felice matrimonio di Vittorio

Amedeo I con Madama Cristina di Francia ». Quanto

s’era proceduto lesti per fabbricare piana Vittorio,

altrettanto s’andò a rilento per piana Cario Felice.

Essa porta il nome dd fondatore, ma è opera di tre

sovrani I lavori proseguirono sotto Cario Alberto

e non finirono die dorante il ragno di Vittorio Ema­

nuele II. Fu nd 1855 che si definì la forma attuale e

s’imprese la costruzione dd grandiosi edifici a por­

titi su disegno dell'architetto Cario Premia.

La Regina Maria Cristina, vedova di Cario Felice,

m memoria dd consorte avrebbe voluto far costruire