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- (t*M)

FELI CE CARENA NEL MI O S T UD I O

T

utti via! Manco più i cani a correre di sbieco

per gli assoliti asfalti del mio delizioso OltrePo,

su cui dilaga un’ubbriacatura di sole agostàno. Gi­

gantesco velario di fresche foreste contro il fiume;

Alpi lontanissime, affogate nella nebbia làttea della

calùra; la città è sparita laggiù, dietro la cortina

dei larici. No! Sento le campane stanche del bel

San Giovanni, le motociclette rabbiose degli spaz-

zini, l’atroce fischio presuntuoso del trenino di Mon-

calieri che si porta in licenza le cuoche e i domestici

dai palazzi deserti.

Restiamo in pochi: malati negli ospedali, solda­

tini nelle caserme, studiosi melanconici senza fa­

miglia, senza amore. Pure non abbandoneremmo il

fresco folto di tutti questi giardini delTOltrePo,

lungo il quale, dalle ville, fiammeggiano ciocche rosse

di gerani di Liguria e stormiscono capigliature umide

di larici valdostani. Torneranno solo a settembre i

torinesi, divorati dalle mosche e dalle note d’al­

bergo.

Un ringhio iroso di campanello elettrico mi spaura!

Signore che siete nei cieli e voi, cameriera che siete

sulla terra, mandate al diavolo ogni seccatore!

Davanti al tavolinetto della macchina da scri­

vere, sotto il sottile vetro, una verdissima scena di

pascolo alpino.

Poco cielo, azzurro, sì, ma smagrito da un inter­

vento liquido d’acquaragia strofinata con avarizia;

sotto il triangolino cobalto una passione estatica di

linee alla Segantini: blocchi triangolari di ghiacci