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continuato di tante dame et cavalieri, pa­

rendomi eh’anche in Torino coteste RR .

A A . in cambio di comedie potessero far re­

citare simili opere col pagamento ogni volta

di mezzo scudo per persona di chi va a sen­

tirla, che tanto s’è praticato qua con van­

taggio anche di chi ha preso l ’assunto di

far la spesa ma di questo non si deve par­

lare in quadragesima »

(16).

L ’annettere una importanza soverchia a

quanto si contiene in questo frammento di

lettera, o il ravvisare nel commento del

conte Porro qualche cosa di più che non un

semplice apprezzamento personale, sarebbe

esagerato. Ad ogni modo però avviciniamo

qualche altra circostanza a quanto si è espo­

sto dal residente Sabaudo di Milano e ve dremo scaturire qualche cosa.

Quando si deve ragionare di qualche tea­

tro un po’ importante d’ Italia fiorente du­

rante l ’ultimo quarto del secolo decimo set­

timo, è quasi impossibile, che poco o molto,

direttamente, o di scorcio non si vedano bal­

zare i nomi e le figure dell’abate Vincenzo

Grimani e di Francesco Alibert. Nella storia

del teatro di Torino, a dire il vero, essi com­

pariscono entrambi. L ’uno, il primo, rap­

presenta in certo modo la parte di

deus ex

machina

che suggerisce, consiglia, dirige,

ma non si rivela direttamente. L ’altro inve­

ce apparisce bene in luce, e se gli toccò di

trovarsi come Mosè, escluso dalla terra pro­

messa e costretto a guardarla dall’alto del

monte, non si può contestare, che a lui si

deve l'impulso maggiore per l ’introduzione

in Torino dell’ uso del teatro melodramma­

tico ordinato secondo il sistema vigente del

corso di rappresentazioni ordinate a serie,

o a stagioni.

Ci troviamo molto impacciati per dire

esattamente, quale fosse il mestiere, o l ’uf­

ficio, esercitato dall’Alibert. Per quanto

sappiamo dai suoi contemporanei, si può

argomentare senza tema di incappare nel

codice penale per reato di diffamazione, o

di calunnia, che per Francesco Alibert tut­

to ciò che giovava a fargli sbarcare il luna­

rio senza troppe scosse, era buono e utile.

Di ingegno versatile, anche troppo, spre­

giudicato, lo vediamo trasformarsi da agen­

te segreto in segretario della regina Cristina

di Svezia, la figlia squilibrata di Gustavo

Adolfo, da mezzano in tutore di un bastar­

do, da biscazziere in comandante d armi di

Nettuno, da emigrato per forza a osserva­

tore del contegno di Maria Mancini Colon­

na, e a proprietario e conduttore di teatri.

La presentazione di un simile personag­

gio non è troppo lusinghiera dal lato mora­

le.

1

suoi contemporanei non si fecero carico

di dipingerlo con colori così foschi, ed egli

stesso colla sua condotta non si curò di

smentirli. Basta leggere le sue lettere scritte

alla Corte di Torino, allo stesso Carlo Ema­

nuele Il per convincersi che non aveva al­

cun rossore, anzi dimostrava una certa com­

piacenza, nel parlare delle sue non lodevoli

azioni.

A Francesco Alibert venne contestato non

solo il titolo di conte, di cui si fregiava, ma

anche la particella De, ch’egli preponeva al

nome del suo casato. Sappiamo, che fu

francese, di famiglia d ’Orléans. Suo padre

servì come intendente il duca Gastone di

Orléans, fratello di Luigi XIII di Francia

e di Maria Cristina duchessa di Savoia. Co­

sì si possono spiegare le sue relazioni colla

Corte di Torino, i servizi, ch’ egli diceva di

averle prestati, specialmente colla sua coo­

perazione attiva, vantata alla conclusione

del matrimonio di Carlo Emanuele II.

Quando, secondo si affermò, fu costretto

ad abbandonare la Francia, perchè sfratta­

to, venne a Torino, ove grazie al suo modo

d’ insinuarsi fu ben accolto. Ciò gli permi-

(16) Arch. di St. di Torino. Sez. I. Lettere ministri Mi­

lano. Il conte A . Porro al Ministro, marchese di S. Tom­

maso, 9 marzo 1677.

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