

cittadinanza nei grandi centri, ed avranno lo scopo
di assorbire l’incremento naturale della popola
zione operaia cittadina.
Ma altre industrie, quelle malsane e moleste e
quelle che richiedono il concorso di tanta gente,
che deve rinunciare all’onore e al vantaggio di
essere contadina, quelle più non devono raggiun
gere la città, ma essere distribuite secondo un
piano prestabilito nelle zone rurali.
Quest’opera dei piani regionali non potrà essere
evidentemente l’opera di un solo urbanista: essa
è opera eminentemente sociale, e si immedesima
con la politica; esorbita per la sua vastità, dalle
possibilità del singolo studioso, per quanto dotato
di ingegno e di buone volontà: e se anche questi
riuscisse a condurre a termine il più ben studiato
piano, esso resterebbe pura esercitazione acca
demica, se l’autorità centrale non intervenisse a
sanzionare l’operato ed a promulgare la legge
per la sua realizzazione.
Spetta a chi ha la responsabilità di comando
prendere l’iniziativa della compilazione di questi
piani con la collaborazione delle forze intellettuali
ed economiche della regione.
Ma innanzi tutto bisogna che una nuova men
talità si formi nei cittadini: se essi amano vera
mente la loro città, se si interessano con passione
del suo avvenire, e se trovano conveniente che la
città non debba ingigantirsi a spese della campagna,
smettino dal sognare il milione di abitanti per
avere diritto a tanti grattacieli, alla metropolitana
o a cose consimili. Queste non sono segni nè
di benessere nè di progresso. L ’elefantiasi delle
città è un fatto patologico, non è un vanto della
nostra civiltà. Alla fatua ambizione di creare la
metropoli, generatrice di molte miserie morali,
fisiche e materiali, ricettacolo di tanti illusi, paras
siti o scarsamente produttivi, deve subentrare la
nuova concezione urbanistica, che vede nella
grande città l’alacre centro direttivo e propulsivo
di una ampia regione nella quale in piccoli centri,
tutte le attività umane, dalle agricole-forestali alle
estrattive, dalle manifatturiere alle turistiche, siano
armonicamente organizzate e fiorenti, ove la vita
degli abitanti si svolga laboriosa e serena, ove la
vita della Nazione risulti maggiormente feconda
e più sicura la sua difesa.
Fino a quando questa nuova mentalità non si
sia formata nei cittadini, nessuna iniziativa potrà
essere presa in questo senso, nessun reggitore
della pubblica cosa volendo apparire agli occhi
dei suoi concittadini traditore delle fortune della
loro città.
Sono su queste basi, in questo periodo di guerra,
che devono predisporre i grandi piani di pace,
tanto Torino come le maggiori città italiane, poi
ché quasi tutte hanno bisogno di <sfollare ». (Nel
triennio 1935-37 quasi un milione di individui,
cioè la quarantaquattresima parte della nazione,
si è inurbato nelle ventidue maggiori città ha*
liane!).
Nessuno, credo, vorrà negare ad esempio il
grande vantaggio che si sarebbe ottenuto se, esi
stendo un piano regionale, le sessantunmila per
sone arrivate a Torino e rimastevi nel triennio
I935'37*
anziché
essere
costipate entro la città,
fossero state suddivise in
23
cittadine grandi come
Littoria o in
90
paesi della capacità di Sabaudia,
disseminati nella nostra ridente regione, in perfetta
armonia fra di loro, con la capitale e la campagna
piemontese. Torino in tal caso, alleviata da quelle
fatiche di Sisifo che sono gli sproporzionati e mai
sufficienti ampliamenti, avrebbe avute disponi
bili maggiori energie da dedicare al «civitatis
decus et civium commodum *: dal risanamento
del suo centro (ove, occorre ricordare, si nasce
poco, si vive penosamente e si muore prima del
tempo), al miglioramento delle sue comunicazioni
(strade; servizi, ecc.): dal completamento e perfe
zionamento della sua edilizia pubblica (scuole,
edifìci pubblici, giardini, ecc.) al beninteso svi
luppo richiesto dal suo naturale e non artificiale
incremento di individui e di iniziative.
Nè ci si illuda che, se nell’attuale conflitto uno
sfollamento è sta
alcuni momenti ritenuto
opportuno e più o meno attuato senza gravi incon
venienti, in altre circostanze ciò possa sempre
risolversi senza disastri. Lo sfollamento si ha da
effettuare nei tempi di pace, non con il nemico
incombente: si rinunci anzitutto al sovraffolla
mento artificiale e poi si cerchi di decentrare le
industrie decentragli. £ il benessere della città,
della regione e dell’intera Nazione che lo esige.
L ’esperienza della nazione vicina, che dal bara
tro della sconfìtta cerca salvarsi, risalendo alle
sorgenti delle forze morali e materiali rimaste
integre nelle sue provincie, ci deve ammonire in
tempo.
La missione di Torino con i suoi
700
mila abi
tanti deve essere bene individuata: non più richiamo
fallace di illusi attirati dal miraggio di grosso
salario in contanti: non più la parassita della sua
regione: ma sorgente dei maggiori progressi del
pensiero, delle scienze e delle arti; crogiuolo ove
si fondano gli elementi spirituali, sociali ed eco
nomici per segnare l’avvenire della Nazione; centro
amministrativo; sede di quelle sane industrie, per
le quali i Torinesi hanno spiccate attitudini e nelle
quali hanno conquistato fama nel mondo, e nuovo
centro propulsivo, direttivo, organizzativo di una
fiorente industria, distribuita nella sana, forte e
laboriosa regione piemontese.
Torino ha da preparare per il giorno della vit
toria non il piano che pietrificherà i suoi miliardi
attorno alla vecchia angusta cinta daziaria, bensì
un piano che, assegnandole un orizzonte più
ampio e luminoso, le apporterà non un tributo
di vite umane, ma i lieti frutti del multifórme
lavoro del paziente e poMcnte popolo pàemootne,
fedele alla «gloria della divina campagna».