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movimento migratorio. L ’incremento migratorio

nell’ultimo decennio è stato del 25,54 */<»• (In

un solo anno nel 1937 ben 44.233 persone si

inurbarono, mentre soltanto 15.317 abbandonarono

la città!).

La città dunque cresce quasi esclusivamente

non per vitali energie dei cittadini, ma per il

tributo recato dalle popolazioni esterne che si

inurbano.

Donde arriva tale tributo? Un pregiudizio assai

diffuso lo fa pervenire particolarmente dall’Italia

meridionale od insulare: uno sguardo alla cartina

geografica che si presenta, modificherà comple­

tamente tale supposizione. Questa cartina docu­

menta l’incremento migratorio che ogni provincia

d’Italia ha apportato alla città di Torino nell’anno

1940, ed è basata sui rilevamenti che la Divisione

di Urbanistica e Statistica del Municipio di Torino,

unica in Italia insieme a Roma, ha raccolto in

questo importantissimo campo. Ogni punto segnato

su una data provincia corrisponde a 50 nuovi

abitanti di tale provincia rimasti a Torino nel

passato anno. (I valori inferiori a 50 sono stati

trascurati).

Da questa cartina si constata che le provincie

che pagano alla nostra città maggior contributo

di persone sono le provincie piemontesi, ed in

particolare quella di Torino e le ruralissime pro­

vincie di Asti e Cuneo: la provincia di Aosta « senza

macchia » dimostra che, nonostante il grave feno­

meno dello spopolamento montano, grazie alle

nuove industrie recentemente sorte, non paga

tributi alla nostra città. Regioni piemontesi si

spopolano dunque per aumentare, ingigantire la

loro metropoli. Questa è la conclusione dell’esame

della cartina geografica.

Diamo uno sguardo a questa regione. Torino

è circondata da una corona di paesi, piccole e

medie città, che un tempo gareggiarono con lei

per grandezza (e talvolta la superarono), per

potenza e per splendore. Sede di principati, di

ducati, di marchesati illustri, di vescovati potenti,

di repubbliche gloriose, di feudi insigni, manten­

nero ancora per lungo tempo il profumo di piccole

capitali e conservarono quel patrimonio di virtù

e di inestimabili valori morali, spirituali ed econo­

mici scaturiti dal ceppo di una razza fedele alla

sua buona terra.

•Sono le cittadine dominate dall’imponente ca­

stello o vigilate dall’alta torre comunale, con il

loro convento gotico e la grande chiesa barocca,

con le piazze solatie e le strade porticate, con le

basse case respiranti l’aria della campagna dal­

l’intimo cortile o dall'orto famigliare, con le ville

dagli alberi secolari e dalle biblioteche preziose,

con i vastissimi edifici di beneficenza, il teatro

ottocentesco ed i mercati opimi. Erano soprattutto

le cittadine dalle famiglie numerose, fedeli alle

istituzioni divine ed

umane,

fedelissime

al loro

diuturno

lavoro non solo materiale ma anche

intellettuale, che la campagna attorno alimentava.

e che nella breve cerchia delle mura o nella piccola

stella dei bastioni pulsava con una organizzazione

perfetta ed indipendente, precorritrice nelle astratte

e concrete speculazioni, proba nel commercio,

ardita nelle iniziative, progressiva nella continuità,

senza scatti od interruzioni.

Visitando recentemente queste cittadine, una

sensazione di decadimento mi ha parecchie volte

dolorosamente colpito. La nobilissima edilizia,

tanto l’aulica quanto la minore, in pieno deperi­

mento, ed i segni del gusto e dell’agiatezza di

un tempo cancellati o deturpati, mi avvertivano

che ben pochi abitanti, memori del passato, sen­

tivano il bisogno di mantenere il loro paese, se

non giovane, almeno sano. E più di una volta

richiesto ai maggiorenti del luogo come si prov­

vedesse all’ampliamento della loro città, mi sentii

rispondere melanconicamente che, se la situazione

non fosse cambiata, meglio era pensare a un restrin­

gimento anziché ad un ampliamento.

La statistica mi ha poi spiegato che il pessimismo

del buon provinciale era nc infondato nè esagerato.

Ero di fronte a cittadine sulle quali l’orizzonte

si restringeva e si offuscava; cittadine cadute in

una fase di invecWkMiUilento, non soltanto nei

muri, ma nelle persone, non solo nel corpo, ma

anche nello spirito e nell’azione. La parte più

giovane, più efficiente della popolazione abban­

dona il paese natio per raggiungere la grossa città.

È l’inurbamento in marcia, marcia rapida, che

travolge l’avvenire dei piccoli centri, senza recarne

uno luminoso e sicuro alla grande città. È soltanto

in questo modo, soltanto per questa vena conti­

nuamente fluente, ma che arrivata, immediata­

mente si insterilisce, che la metropoli ingigan­

tisce. E può essa compiacersi e vantarsi di questo

suo vertiginoso sviluppo? La risposta da oltre

un decennio è stata data dal Duce: « In genere

c’è una tendenza a gloriarsi dell'aumento della

popolazione urbana. E un errore o meglio è da

distinguere. Se l’aumento della popolazione urbana

è dovuto al fenomeno spontaneo di un supero

della natalità sulla mortalità, va benissimo: nulla

da obbiettare. M a se il supero non esiste ed esiste

invece una immigrazione che pletorizza la città

e la rende ad un certo punto mostruosa, allora

questo aumento della popolazione non è affatto

da salutare con particolare gioia e soddisfa­

zione *.

Quando poi l'aumento della popolazione per

immigrazione è talmente vertiginoso in confronto

all’incremento naturale, ci si domanda stupiti

come e perchè il saggio monito « sfollare le città »

sia da così lungo tempo ottemperato perfettamente

al contrario, nonostante l’unanimità di consenso

di quanti sono preposti al pubblico benessere.

Le cifre parlano chiaro, e se il ritorno alla terra

da parte del cittadino è, se non impossibile, almeno

difficilissimo, non sarebbe più frale rallentale

prima e fermare poi la corrente umana che fluisce

alle metropoli?