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Perchè «bógia nen»?

La prima accusa di essere dei

bógia tien

fatta ai

torinesi, risale al 15S0 quando Montaigne passando

per Torino definì la popolazione della città «gente

allegra, dedita alle danze, di acuto ingegno, ma ne­

ghittosa ». Altri giudizi del genere furono in seguito

aggiunti a questo, dettati da un’errata valutazione

dello spirito del popolo torinese o, meglio, da uno

studio superficiale del carattere di esso che, per il suo

equilibrio e la sua moderazione sia negli entusiasmi

sia nelle avversità, può anche essere erratamente de­

finito apatico.

Poche invece sono le città che hanno dato prova

di un’evoluzione così rapida come quella di Torino

considerando che fino al secolo XV I guerre incessanti,

difese disperate e lotte intestine ne ostacolarono lo

sviluppo; all’inizio del secolo, infatti, mentre le altre

città subivano le correnti nate dal contrasto dei vari

pensieri umani allora formantisi, Torino, situata fuori

dalle grandi lince di comunicazione, non contava che

una popolazione di poco più di 4.000 abitanti, composta

prevalentemente di agricoltori e militari.

L’ora della rinascita può dirsi scoccata nel momento

in cui Emanuele Filiberto assurse la città a ruolo di

capitale; liberata infatti dall’aspra amministrazione

francese, una vita nuova e nuove speranze si delinca­

rono dinanzi alla stremata cittadinanza torinese che,

posate finalmente le armi, cominciò la sua ascesa che

doveva poi sfociare nell’apoteosi del Risorgimento.

L’istituzione dell’italiano come lingua ufficiale, fu il

primo segno di quest’ascesa: con questo provvedi­

mento, infatti, Torino cominciava ad orientarsi, cul­

turalmente, verso l’orbita italiana; il secondo fu l’isti­

tuzione dcll’Università che il Senato del Piemonte

riuscì a togliere al Comune di Mondovì nel 1566 e che

cominciò a funzionare in un vecchio palazzo dell’at­

tuale via San Francesco d’Assisi, di fronte alla Chiesa

di San Rocco.

Iniziata così la sua riforma culturale, la città co­

minciò ben presto ad essere centro d’attrazione: intere

famiglie della nobiltà provinciale si trasferiscono a

Torino attratte dalla Corte e dalle possibilità di studio

pei loro figli, e contadini che la campagna non può

più sfamare dopo il lungo abbandono in cui l’hanno

lasciata gli anni di guerra; il numero dei cittadini

sale, infatti, in pochi anni, a 30.000 secondo la stati-

snea del 1571 del Cardinale Bonelli.

Quest’afflusso di nuovi elementi richiese, logica­

mente, un rapido incremento costruttivo: il 1570 può

considerarsi l’anno della trasformazione edilizia tori­

nese che si iniziò con una deliberazione del Consiglio

Decurionalc sull’obbligo « d’imbiancare le più vecchie

e più brutte costruzioni ». Fu questo, si può dire, il

«la» della rinascita: da ogni parte d’Italia, infatti,

cominciano ad affluire artisti accorsi ad abbellire il

volto di Torino; mentre Torquato Tasso, col suo

genio, Giovan Battista Marino con la sua arguta e

piacevole pv ^.a, Gabriello Chiabrera, Alessandro Tas­

soni, Fulvio Testi e Gaspare Mutola deliziavano la

Corte, architetti ed artisti gareggiavano in valentia per

dare a Torino quell’impronta di sobrietà e d’eleganza

che la fanno ancor oggi una delle più belle città ita­

liane. La fine del secolo XV I e l’inizio del XV II vi­

dero infatti sorgere, per virtù di artisti come i Castcl-

lamontc, il Vittozzi, il Tibaldi ed il Palladio, palazzi

e chiese improntate ad una schiettezza di stile impareg­

giabile, mentre magici pennelli come quelli di Gio­

vanni Carracha e Federico Zuccaro ridavano un nuovo

volto alle vecchie costruzioni.

I

profondi sentimenti religiosi di Emanuele Fili­

berto — cattolicissimo per convinzione e molto anche

per politica — dovevano necessariamente influire su

questo piano edilizio clic si orientò così, più che altro,

nella costruzione di chiese rese necessarie dal decreto

del Duca che introduceva nello Stato le decisioni del

Consiglio di Trento: con l’obbligo fatto ai cittadini

d’assistere alla messa e d’imparare il catechismo, e

l’obbligo del precetto pasquale esteso a tutti gli im­

piegati statali nonché quello di tenere il crocifisso

anche nelle osterie e nelle botteghe, non potevano

infatti che essere appoggiate tutte le iniziative reli­

giose atte a rendere forte quel clero su cui faceva affi­

damento la politica filibertiana che mirava alla con­

quista delle valli vicine in cui s’erano imposte le idee

calvinistc. Di quest’epoca la chiesa di San Tommaso,

costruita sulle rovine di un’altra chiesa trecentesca;

quella dello Spirito Santo e della Santissima Trinità,

tutte del Vittozzi che in quest’ultima volle la sua

tomba; del grande architetto anche la chiesa dei Cap­

puccini ed il convento annesso — ambedue danneg­

giati nei bombardamenti dell’ultima guerra — di

puro stile francescano col suo piccolo e raccolto chio­

stro rustico lastricato con le dure pietre delle Alpi,

costruite più tardi sotto Carlo Emanuele I.

Ancora dell’epoca filibertiana, invece, la costru­

zione del grande Parco fuori le mura, l’attuale Regio

Parco, la cui magnificenza di edifìci, di giardini e di

boschi fu anche cantata da Torquato Tasso; l’assedio

dei francesi del 1706 lo distrusse e di esso non rimase

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