

cratica precisione, consente di verificare se queste linee interpretative
siano applicabili al caso torinese. Occorre tuttavia sottolineare in par-
tenza anche i limiti della fonte, che non è giudiziaria, bensì contabile;
sicché non tiene conto se non delle sanzioni pecuniarie comminate dal
vicario. Per quei delitti che si punivano con la morte o con le mutila-
zioni, si può trovare qualche indicazione in quei medesimi conti, là do-
ve il clavario annota le spese sostenute per ceppi e patiboli, vitto di pri-
gionieri e salari di sgherri; o, ancora, dove compila l’inventario delle pro-
prietà confiscate ai condannati. Non c’è, per contro, alcun modo di
colmare le lacune della fonte per quanto riguarda l’ampia gamma dei rea-
ti contro la proprietà: quasi sempre, furti e danneggiamenti si puniva-
no bensì con la multa e col risarcimento del danno, ma in caso di insol-
venza del reo prevedevano invece la berlina e la frusta, pene che non la-
sciavano nella maggior parte dei casi alcuna traccia documentaria.
Se si aggiunge che il perdono del principe, esito assai frequente so-
prattutto se nei delitti erano implicati personaggi eminenti, è registrato
nei conti solo allorché cassava o riduceva una condanna già pronuncia-
ta, e non quando veniva addirittura a interrompere l’azione penale, le
limitazioni della fonte appariranno ancor più evidenti. Certo, altre fon-
ti ci soccorrono al bisogno: prime fra tutte gli statuti, con la loro ampia
casistica d’infrazioni e sanzioni, queste ultime, come vedremo, non sem-
pre corrispondenti a ciò che si praticava nella realtà; resta il fatto che
l’assenza di fonti propriamente giudiziarie condiziona in modo decisivo
l’orientamento della ricerca. Occorre cioè rinunciare all’illusione di po-
ter sottoporre il nostro materiale a un trattamento statistico: il rappor-
to concreto fra il crimine compiuto, il suo autore, che non era necessa-
riamente un criminale, e gli ufficiali chiamati a giudicare, a punire o a
perdonare dovrà sempre collocarsi al centro dell’indagine, sia che que-
sta si fondi sulla presentazione di singoli casi, sia che faccia ricorso, con
tutte le cautele del caso, all’elaborazione di singole serie quantitative.
Per le stesse ragioni ho ritenuto di dover scartare, dopo qualche per-
plessità, l’introduzione di una prospettiva di classe nell’analisi della vio-
lenza, o, per essere più precisi, della criminalità. Guido Ruggiero ha di-
mostrato che nella Venezia trecentesca i patrizi erano più violenti degli
altri cittadini, più disposti a sguainare la spada o il coltello, e anche a
prendere una donna con la forza, di quanto non fossero bottegai, ma-
novali o marinai
44
. E anche scorrendo le fonti torinesi, è impossibile non
restare colpiti dalla frequenza con cui ricorrono alcuni nomi di nobili o
Gruppi e rapporti sociali
191
44
Cfr.
g. ruggiero
,
Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento
, Bologna
1982, pp. 147-78.