

non rientra fra i compiti delle autorità locali; infine perché nei confronti
di tutti, cittadini e forestieri, il potere discrezionale del vicario, di cui
il giudice non è che un collaboratore, gli conferisce un margine d’azio-
ne indispensabile per compiere la sua opera, che non è soltanto di man-
tenere l’ordine, ma in senso più ampio di governare. Così come, negli
stati del tardo medioevo e dell’antico regime, il diritto di grazia eserci-
tato dal principe dev’essere riconosciuto come un vero e proprio stru-
mento di governo, così la facoltà di aggravare o alleggerire le pene rap-
presenta nelle mani degli ufficiali uno strumento indispensabile per im-
porre la propria autorità.
Tanto più significativi, allora, e rivelatori di una preoccupazione
profonda, appariranno i casi in cui gli statuti negano ai rettori quella fa-
coltà. Si è già detto che la pena di morte è obbligatoria per l’assassinio
di un cittadino ad opera di un forestiero; in un’altra rubrica si aggiun-
ge che se qualcuno viene in città col proposito di aggredire o uccidere
un cittadino, dovrà infallibilmente essere messo a morte entro 10 gior-
ni dalla cattura, «nulla ipsum pena peccuniaria excussante». Tutti gli
abitanti della città saranno tenuti a collaborare alla cattura, e se qual-
cuno, anziché prender parte alla caccia, aiuterà il colpevole a scappare,
dovrà subire la stessa pena. La norma è di quelle che maggiormente ri-
flettono la vera e propria ossessione, tipica degli statuti torinesi, per la
violenza proveniente dall’esterno, e si potrebbe presumere che la sua se-
verità fosse attenuata nella pratica; ma non era così. Nel 1388, dei fur-
fanti prigionieri nel castello di Porta Susa, e accusati di aver ucciso cer-
ti uomini di Borgaro in Vanchiglia, riuscirono a evadere; la caccia all’uo-
mo subito organizzata fallì, perché parecchi cittadini non si dimostrarono
abbastanza zelanti nel prendervi parte. Immediatamente il principe
d’Acaia ordinò un’inchiesta, e fra i responsabili emerse il nome di Gio-
vanni Maschero, uno dei più ricchi usurai cittadini. Il 20 dicembre, il
Maschero allarmato chiese al comune di mandare ambasciatori al prin-
cipe per discutere della faccenda; l’inchiesta, tuttavia, proseguì, e rivelò
che non solo l’usuraio aveva rifiutato di collaborare alla caccia agli eva-
si, ma addirittura li aveva aiutati a fuggire. Il Maschero venne arresta-
to e condannato a morte, e i suoi beni confiscati; il disgraziato rivolse
un altro appello al consiglio, quattro mesi dopo il precedente, e di tono
ben diverso, supplicando di mandare ambasciatori al principe e alla prin-
cipessa: che si degnassero di rimandare la sua esecuzione, e magari di ri-
sparmiarlo, prendendo in cambio tutti i suoi beni. Il consiglio comuna-
le, dove fino a qualche anno prima sedeva il padre del Maschero, mandò
al principe i suoi giuristi più autorevoli, messer Tomaino Borgesio e mes-
ser Ribaldino Beccuti, supplicandolo di salvare la vita al condannato;
Gruppi e rapporti sociali
199